Ucraina: muore Igor Astakhof prigioniero politico antifascista

Ucraina: gli antifascisti “uccisi” dal carceredi Enrico Vigna

28 aprile 2016.- Igor Astakhov, prigioniero politico e attivista antifascista di Odessa, è morto in carcere, ucciso dalla mancanza di cure delle autorità ucraine.                  

Nella tarda serata del 23 aprile 2016 è morto nel carcere di Odessa il prigioniero politico Igor Astakhov, ucciso dalla illegalità e dalla mancanza di cure, oltreché per le torture e violenze subite in detenzione. Il cuore malato dell’uomo si è fermato. Era il giorno del suo compleanno.

Il regime di Kiev ha comunicato che “è morto per insufficienza cardiaca“.

Igor Astakhov era nato 48 anni fa, era stato arrestato il 20 gennaio 2015, accusato per i fatti del 2 maggio ad Odessa; era stato accusato per il sospetto coinvolgimento nell’uccisione di un noto esponente neonazista dei Battaglioni ATO, Yanu Shishman, e delle sue due guardie del corpo.                                                                                           
Secondo le informazioni disponibili e i documenti video e fotografici, Shishman era uno dei capi dell’assalto neonazista alla Casa del Sindacati, dove il 2 maggio furono assassinate 48 persone e oltre 200 rimasero mutilate e ferite; questi era uno di quelli che lanciarono le molotov alla Casa dei Sindacati a Odessa il 2 maggio, e che avevano personalmente bruciato persone lì rifugiate.

Astakhov era stato accusato sulla base del codice penale ucraino, dell’articolo 115 parte 2: uccisione di diverse persone; dell’articolo 263 parte 1: possesso illegale di armi e dell’articolo 294: parte 2, partecipazione a disordini di massa il 2 maggio. Egli fin dall’inizio era stato membro attivo delle milizie di autodifesa popolare contro i nazisti di Odessa e contro il golpe di EuroMaidan. Un vero patriota ucraino antifascista, come si definiva.

Il suo avvocato in questi sedici mesi ha denunciato e documentato le orribili torture e violenze a cui è stato sottoposto, non solo all’inizio della detenzione, ma anche pochi mesi fa.                                                         

Astakhov a partire dal primo giorno della sua detenzione è stato sottoposto a torture terribili. Ogni giorno è stato sottoposto a metodi illegali di interrogatorio. E ‘stato picchiato, torturato con scosse elettriche, unghie strappate, dita schiacciate, costole rotte, chiedendogli di ammettere le accuse e deporre contro i suoi compagni. Igor aveva una valvola artificiale nel cuore e dopo le torture stava sempre peggio, di recente aveva avuto un attacco di cuore e la richiesta di chiamare un medico non aveva avuto risposta“, ha denunciato il suo avvocato. 

Persino la sua famiglia poteva incontrarlo solo saltuariamente e solo a molti mesi dal suo arresto. 

Anche le continue richieste di maggiori cure e assistenza sono state negate, tutte cadute in un letale silenzio. Tutto Invano. Attese, rinvii e tutto è rimaso in attesa, mese dopo mese, anno dopo anno. Hanno aspettato e sperato: ma la Giunta di Kiev è sorda ai diritti umani ed alla legalità internazionale.

I suoi avvocati hanno anche coinvolto le parti che partecipano agli “Accordi di Minsk”, Ucraina, Russia, Bielorussia, L/DNR, UE, fornendo le documentazioni relative alle bestiali violenze e torture a cui era sottoposto e chiedendo che fosse incluso negli scambi di prigionieri di guerra tra le parti.

Igor Astakhov non tornerà più, né dalla sua famiglia, né tra il suo popolo, in nome del quale ha donato la vita. Uomo buono, altruista, che secondo le testimonianze degli altri prigionieri usciti dal carcere, anche nel buio delle segrete del regime di Kiev riusciva a contribuire a mantenere alto il morale dei prigionieri politici e di guerra.

Ad Memoriam Igor Astakhov!

 

“Da sotto la copertura delle tenebre della notte

Dal buco nero dei terribili tormenti

Ringrazio tutti gli dèi

Per il mio spirito inviolato.

Ed io, caduto nella morsa della disgrazia

Non ho tremato e non ho gemuto

E sotto i colpi del destino

Sono stato ferito, ma non sono caduto.

Passa un sentiero tra il male e le lacrime

Anche se la strada da fare non è chiara

Di difficoltà e disgrazie

Io, come prima, non ho paura.

Non importa che la porta è stretta

Il pericolo non mi spaventa

Io sono padrone del mio destino

Io sono capitano della mia anima”

Igor Astakhov

 

“E  sorridendomi mi spezzavano le ali

La mia voce rauca a volte sembrava un ululato.

Io diventavo muto dal dolore e dalla fiacchezza

E solo sussurravo: Grazie che sono vivo”

Igor Astakhov

“IN MEMORIA DI IGOR ASTAKHOV ucciso nel carcere di ODESSA il 23 aprile 2016 giorno del suo ultimo compleanno”                          

– di Sergey Barkovskii
Volontariamente ho messo la testa sul ceppo,
Non aspettare!, No, no, io voglio metterla !
Io, combattente antifascista Igor Astakhov,
Io disprezzo le autorità di Kiev,
Forza, cattiveria, meschinità, l’inganno
regnano in Ucraina!

“Così ho deciso: non starò in silenzio!
Ma la mia lotta non sarà un mistero.
Ho combattuto per la libertà, con volontà,
Ho cercato di spazzare tutto lo sporco.
E il giorno della battaglia di Kulikovo
Ho camminato eretto  e apertamente!
C’erano canaglie
Con tante forze,
La povertà morale galoppa furiosamente.
Negli ultimi due anni, questi idioti
Volevano insegnami ad “amare la patria!”
Sono in carcere sotto tortura, ma non mi arrendo,
Nessuno che ha donato agli altri, può angosciarsi per la sua lotta.
Pur in un orrore misterioso, non mi spezzano,
E io continuo a combattere fino alla morte!
E ora, in piedi sul bordo della tomba,
Alla fine dei miei giorni di vita,
Chiedo a Dio di dare ancora più forza
No, non a me, ma alla mia Patria!
L’oscurità scomparirà. Nella nostra casa la luce vincerà!

Tornerà il paese in cui regna la felicità.
Per i nazisti sarà finita
Allora l’Ucraina rinascerà!”

 

 

Esprimendo le nostre condoglianze alla famiglia, agli amici, ai suoi compagni di lotta, riteniamo che la cosa più importante da fare è mantenere vivo il suo ricordo con un impegno attento alla sorte degli altri prigionieri politici e di guerra, contro l’illegalità della Giunta Ucraina di Kiev, con la convinzione che:

 NULLA E’ DIMENTICATO. NESSUNO DIMENTICA!

Hebe de Bonafini: «Ancora in piazza per rinnovare il sogno dei nostri figli»

30est1f01-hebe-bonanfinidi Geraldina Colotti – il manifesto

«I nostri figli hanno dato la vita per un sogno e noi lo rinnoviamo ogni giorno». Non tradisce il peso degli anni, la voce di Hebe de Bonafini, storica dirigente delle Madres de Plaza de Mayo, classe 1928. Oggi, l’organizzazione che ha contribuito a fondare, il 30 aprile del 1977, compie 39 anni. Il 24 marzo dell’anno prima, una giunta militare aveva preso il potere in Argentina, scatenando una repressione che, in sei anni, provocherà circa 30.000 scomparsi.

Sfidando il pericolo, quel 30 aprile le Madres lanciano al mondo un simbolo di resistenza, come una bandiera: un fazzoletto bianco con su scritto il nome dei loro figli scomparsi, un pannolino di tela con cui li hanno fasciati da piccoli. Donne semplici, via via sempre più coscienti e organizzate, consapevoli del rischio e disposte a continuare a prezzo della vita. Il 10 dicembre del 1977, nella giornata internazionale dei Diritti umani, il giornale delle Madres pubblica l’elenco dei ragazzi desaparecidos.

Quella notte, l’operaia Azucena Villaflor, una delle fondatrici viene sequestrata da uno squadrone della morte e condotta in uno dei campi di sterminio, probabilmente l’Esma. I suoi resti sono ritrovati l’8 luglio del 2005, durante la stagione dei processi ai responsabili della dittatura. Le ceneri vengono sepolte ai piedi della Piramide di Maggio, al centro della Plaza de Mayo, l’8 dicembre del 2005, a conclusione della 25ma marcia di resistenza delle Madres.

Oggi, il pañuelo è diventato un simbolo nazionale dell’Argentina «e per tutti i popoli del mondo rappresenta la lotta, la resistenza, la trasformazione collettiva», scrive Kabawil, il gruppo di appoggio italiano alle Madres. Per il loro 39mo compleanno, Kabawil ha organizzato una carovana, che si conclude oggi a Mar del Plata.

Cosa ricorda Hebe di quel 30 aprile di 39 anni fa? Com’è cominciata quella battaglia?
Da mesi, ci incontravamo al ministero degli Interni, nelle caserme, tutte alla ricerca dei nostri figli scomparsi. Un giorno, che può essere considerato il punto d’avvio, eravamo andate alla chiesa della marina Stella Maris, dal vescovo Emilio Gracelli che poteva avere notizie. E Azucena Villaflor ha detto: basta, andiamo in piazza. Eravamo stufe di girare a vuoto. Così ci rechiamo a Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, il palazzo presidenziale argentino, con una lettera per il generale Videla. Era un sabato, e lì non c’era nessuno, mentre noi volevamo essere visibili. Qualcuna suggerisce di tornare il venerdì, ma c’è chi dice: no, venerdi è il giorno delle streghe. Così cominciamo a girare in piazza il giovedì alle 15,30: per rientrare prima del buio, perché eravamo seguite e perseguitate.

Quanti figli ha perso?
Due, più mia nuora, sposata al maggiore. Ma per le Madres la maternità è collettiva, abbiamo deciso di socializzarla, parliamo dei nostri figli per parlare della storia di questo paese, dei molti giovani coraggiosi che le famiglie non hanno voluto ricordare. Loro hanno dato la vita per un sogno, noi abbiamo deciso di condividerlo e di rinnovarlo, ogni giorno da allora. Per noi, non sono né vittime – perché hanno lottato, anche con le armi per i propri ideali – né tantomeno terroristi. Nessun terrorista dà la vita per amore degli altri. La rivoluzione è un atto politico d’amore: perché sempre i popoli hanno motivo di lottare e di guardare a quelli che lo hanno fatto prima di loro per costruire una speranza. In Argentina abbiamo avuto 12 anni meravigliosi con il kirchnerismo, la casa del governo era aperta, era parte della nostra vita. Con Nestor e Cristina, l’Argentina ha aperto la scatola nera del passato, ci sono stati i processi, si sono rimesse in moto le energie.

Ma adesso è tornata la destra…
E siamo tutti responsabili. Certo, ci sono stati errori di tipo diverso: candidati che non sono stati all’altezza, la corruzione, ma il più grave è stato l’aver dato le cose per acquisite. Non abbiamo capito cosa sia davvero la lotta di classe. Abbiamo dimenticato che, senza un adeguato lavoro politico, la gente più umile quando ottiene dei benefici si rivolge verso l’alto e non verso il basso, pensa che chi sta più in alto possa darle ancora di più, senza capire che quello che ha avuto è perché se lo è conquistato. E così è arrivata la destra con le sue promesse megagalattiche di lavoro, felicità, parole vuote e demagogiche dirette agli strati più umili. Macri ha promesso di tutto, salvo quello che sta mettendo in atto: licenziamenti, pallottole per chi protesta, chiusura delle università popolari e delle mense scolastiche per i bambini poveri…

Le Madres sono nuovamente a rischio?
Sì, ci hanno minacciato di morte, telefonate continue in cui dicevano che ci avrebbero uccise. Quattro tizi armati sono entrati nella sede della nostra radio, hanno sfondato la porta, ferito un compagno. Io sono stata citata tre volte in giudizio per incitamento alla violenza. Una prima volta mi chiama il giudice e mi dice di andare a deporre. Rifiuto. Mi manda una citazione. Non vado. Mi dice: mandi il suo avvocato. Rispondo: non nomino nessun avvocato perché non ho commesso alcun reato. Se volete arrestarmi, fate. Sto aspettando. Un giorno ci hanno impedito di entrare in piazza, una camionetta di polizia proibiva l’entrata. Ma sono arrivati i compagni, insieme a 40 deputati.

La deputata Milagro Sala è in carcere per presunte irregolarità amministrative.
Sì, purtroppo. Mi ricordo che anni fa lavoravamo a un progetto di case popolari chiamato Il sogno condiviso. Con quello abbiamo fatto uscire dal carcere due detenuti e due emarginati che si trovavano in un ospizio. E questi, con la complicità di funzionari governativi hanno messo su una truffa con cui hanno cercato di screditarci. E un giudice ci ha obbligato a pagare i danni. Abbiamo capito che la politica non va mischiata con il denaro, con il capitalismo che non puoi controllare perché stimola solo gli interessi individuali, la politica va intesa nel suo senso più alto, come la migliore azione collettiva. Per questo, a differenza delle altre associazioni, abbiamo rifiutato risarcimenti economici per i nostri figli. Non c’è prezzo per la vita e non serve dedicare una strada a qualcuno degli scomparsi. I nostri figli non sono morti, vogliamo che vivano nelle lotte presenti insieme a tutti i 30.000 scomparsi. Per via dell’età, siamo sempre di meno, ma il nostro impegno è lo stesso: mostrare ai giovani che la lotta non è inutile, neanche il sangue versato è inutile e che non bisogna sentirsi vittime.

Lei è tornata in piazza per difendere il socialismo bolivariano e ha denunciato i golpe istituzionali in marcia in America latina.
Sì, bisogna difendere Nicolas, Dilma… Prima, per eliminare i presidenti le destre usavano l’esercito, oggi si servono dei giudici, dei grandi media e degli imprenditori. Nel governo Macri sono quasi tutti imprenditori, schierati per riconsegnare il paese ai fondi avvoltoio. E la sinistra non capisce che deve riformulare il proprio pensiero politico. Ma il popolo, durante gli anni del kirchnerismo ha imparato a scendere in piazza. Macri ha fatto un decreto per impedirci di scendere in piazza, ma il 24 marzo eravamo un milione di persone a rendere carta straccia il suo decreto. Uno tsunami. Il popolo è uno tsunami e uno tsunami non si ferma per decreto. In America latina si è aperta una speranza, dobbiamo lottare perché diventi realtà, senza delegare tutto ai politici. Loro fanno il possibile, il popolo deve fare l’impossibile e lì stanno le Madres.

 

Diga di Mossul: geologia e geopolitica

di Francesco Cecchini

Intervistato lo scorso marzo 
dal giornalista di Al Monitor Wilson Fache, che si era recato nell’area della diga per un reportage, un abitante della parte di hinterland di Mosul sotto il controllo dei peshmerga curdi (come la diga), ha usato le parole del condottiero berbero Tariq Ibn Ziyad per descrive la situazione degli abitanti dell’area: “Ora ci troviamo con il nemico davanti a noi e il mare profondo dietro di noi”.

LA GEOLOGIA

La diga di Mosul, originalmente conosciuta come Saddam Dam, sul fiume Tigri, nel governatorato occidentale iracheno di Ninawa, si trova circa 50 chilometri a nord della città di Mosul, controllata dall’Isis, meglio detto, capitale del Califfato. La sua costruzione, cominciata nel 1980, fu decisa da Saddam Hussein, nel quadro di un piano di “arabizzazione” del nord curdo dell’Iraq. Fu costruita da un consorzio italo-tedesco HochtierAktiengesellschaft – Impregilo, che la completò nel 1984.Lo sbarramento è lungo 3,2 chilometri per un’altezza di 131 metri.Ė la quarta diga più grande del Medio Oriente e la più grande dell’Iraq. Componente chiave dell’energia elettrica nazionale: 4200 megawatt di turbine generano 320 MW di elettricità al giorno.

I lavori di impermeabilizzazione e di consolidamento furono eseguiti dall’impresa italiana Ing. Rodio S.p.A. di Milano. Fin dai lavori di indagine geologica, eseguiti sempre dalla Rodio, e che compresero anche lo scavo di un tunnel esplorativo si sapeva che il suolo di fondazione, argilla e gesso carsico, non era adatto alla struttura. Il consorzio non si curò delle caratteristiche non idonee del suolo del territorio scelto per la “grande opera” del governo di Saddam Hussein. I lavori furono completati nel 1984.

La diga ha sofferto fin dall’inizio problemi, che resero, quasi immediatamente, necessarie iniezioni di cemento microfine. Una stima parla di circa 90 milioni di chili di cemento iniettato che però furono inefficaci e non hanno risolto il problema. Anzi sembra abbiano causato ulteriori deterioramenti agli strati di gesso carsico di fondazioni e alla struttura. Le continue iniezioni di cemento hanno fatto si che le aperture nel gesso si aprissero sempre più, lasciando cavità al posto del dissolto gesso, movimenti di ingenti quantità di cemento e in superfice sussidenze tutt’intorno alla diga. 

Nel 2007 la diga di Mosul fu oggetto di due rapporti dei tecnici dell’americano Corp of Engineers (USACE) che misero in luce caratteristiche e pericolosità:

Geologic Setting of Mosul Dam and Its Engineering Implications

http://el.erdc.usace.army.mil/elpubs/pdf/tr07-10.pdf

e

GeologicConceptual Model of Mosul Dam.

http://www.dtic.mil/dtic/tr/fulltext/u2/a472031.pdf

Martedì 19 e mercoledì 20 aprile scorsi il Centro studi americani, in collaborazione con l’Ispi, ha ospitato l’Iraq Crisis Conference, un ciclo di conferenze promosso dal Pafi (Peace Ambassadors for Iraq). Nadhir al-Ansari, docente presso la facoltà di ingegneria del Politecnico di Lulea alla costruzione della diga ha preso parte in prima persona,ha fornito un quadro completo dei numerosi problemi geotecnici.

GLI ALLARMI

A fine febbraio 2016, Il governo iracheno e l’ambasciata Usa a Baghdad hanno messo in guardia i residenti lungo il fiume Tigri su un possibile cedimento della diga di Mosul. Hanno affermato che Il rischio di caduta è “serio e senza precedenti. Un’evacuazione rapida rappresenta lo strumento più efficace per salvare vite di centinaia di migliaia di iracheni”.

Ultimamente anche l’ONU ha lanciato l’allarme: “Rischio catastrofe, fatepresto” Secondo gli analisti, il cedimento della diga potrebbe travolgere tra i 500mila e l’1,4 milioni di iracheni che vivono lungo le rive del fiume Tigri.In una riunione, il 10 marzo scorso, presieduta dall’ambasciatrice Usa Samantha Power e dall’ambasciatore iracheno Mohamed Alhakim si è fatto un appello alla comunità internazionale di “effettuare al più presto i lavorinecessari” e di istruire la popolazione sulle vie di fuga in caso di inondazione. Il cedimento della struttura potrebbe avvenire anche con scarsissimo preavviso e le conseguenze sarebbero devastanti: “se si dovesse aprire una falla – ha detto la Power – l’onda raggiungerebbe i 14 metri di altezza, spazzando via ogni cosa, persone, auto, case, ordigni inesplosi, scorie e altro materiale pericoloso”. La città di Mosul, che conta oltre 600 mila abitanti, sarebbe sommersa dalle acque in meno di quattro ore. “La posta in gioco è altissima –ha sottolineato l’ambasciatrice Usa – e le conseguenze possibili devastanti per non affrontare immediatamente il problema”L’onda potrebbe anche raggiungere la città di Baghdad.

Nel recente ciclo di conferenze a Roma, menzionato prima, al-Ansari si è unito al coro di allarmi affermando che “la diga cederà di certo”.

RENZI, PINOTTI E LA DIGA

Le truppe italiane in Iraq supereranno tra pochi mesi il migliaio di effettivi con l’arrivo di un battaglione destinato a presidiare la diga sul fiume Tigri a nord di Mosul, contesa aspramente nell’estate del 2014 dalle milizie dell’Isis e dai curdi che la riconquistarono con l’appoggio aereo statunitense.

La nuova missione militare è stata annunciata dal Presidente del Consiglio  Matteo Renzi a una  trasmissione televisiva Porta a Porta del dicembre 2015: “siamo in Iraq per l’addestramento ma anche con un’operazione importante nella diga di Mosul, cuore di un’area molto pericolosa al confine con lo Stato Islamico: è seriamente danneggiata e se crollasse Baghdad sarebbe distrutta.L’appalto è stato vinto da un’azienda italiana, noi metteremo 450 nostri uomini insieme agli americani e la sistemeremo”. Il nuovo impegno dell’Italia era stato anticipato da Barack Obama, che aveva dichiarato che “l’Italia è pronta a fare di più nella lotta al Califfato”.

Roberta Pinotti, ministro della Difesa  ha affermato al programma televisivo Agorà:  Non andiamo a combattere bensì a compiere interventi per preservare la diga, un’infrastruttura fondamentale per il futuro dell’Iraq, che se abbandonata rischia di provocare un grave danno ambientale. Quella di Mosul è una missione nuova e importante, in una zona molto calda perché la città è considerata la capitale del califfato in Iraq, città centrale anche per i collegamenti con la Siria”. La Pinotti inoltre ha parlato di 500 soldati  coinvolti nell’iniziativa oltre a dire: “bombardare non è un tabù”.

L’IRAQ E LA DIGA

Non tutti in Iraq sono d’accordo con Renzi, perché finora il governo iracheno ha mostrato poca disponibilità ad accogliere forze straniere da combattimento sul territorio nazionale.Recentemente il premier al-Abadi ha criticato il dispiegamento di forze speciali statunitensi in Iraq e ha condannato l‘arrivo di un reggimento meccanizzato turco a nord di Mosul, penetrato in Iraq col via libera dei curdi ma non di Baghdad. Il direttore iracheno della diga di Mosul, Riad Ezziddine intervistato dall’emittente tv irachena al-Sumaria news ha affermato riguardo l’invio di soldati italiani alla diga di Mosul: “Chiacchere che mirano a creare confusione. Alcune dichiarazioni diffuse ultimamente circa un imminente crollo della diga non si basano sulla realtà”

Perché gli iracheni dovrebbero accettare che truppe italiane presidino un obiettivo sensibile di quel valore? Non è un caso che le notizie sull’invio dei soldati italiani alla diga vengano definite “chiacchere che mirano a creare confusione” dal direttore iracheno della diga di Mosul, Riad Ezziddine intervistato dall’emittente tv irachena al-Sumaria news.Il ministro delle Risorse idriche, Mushsin Al Shammary, ò il 20 dicembre scorso, ha dichiarato che l’Iraq “non ha bisogno di alcuna forza straniera per proteggere il suo territorio, i suoi impianti e la gente che ci lavora”

Anche le potenti milizie sciite irachene hanno reso noto che qualsiasi forza straniera in Iraq sarà considerata come una forza occupante, compresi gli italiani. Ė l’avvertimento lanciato dal portavoce delle Brigate sciite irachene Hezbollah, Jaafar al Husseini. “La nostra posizione è chiara: qualsiasi forza straniera in Iraq sarà considerata una potenza occupante a cui dobbiamo resistere”. Il leader radicale scita Moqtada Sadr, uno dei protagonisti dell’insurrezione contro le truppe alleate d’occupazione nel 2004 (sue milizie uccisero e ferirono anche molti militari italiani nell’area di Nassiryah “tra il 2004 e il 2006) ha affermato che “l’Iraq è diventato una piazza aperta a chiunque voglia violare i costumi e le norme internazionali”. Oltre ai miliziani sunniti del Califfato, i nostri militari dovranno guardarsi anche dalle milizie sciite filo iraniane che combattono a sud di Mosul e che sono poi le stesse che hanno ucciso o ferito tanti militari italiani a Nassiryah durante l’Operazione Antica Babilonia tra il 2003 e il 2006.

Per Baghdad anche l’urgenza dei lavori di ristrutturazione della diga non sembra essere poi così urgente. A fronte dei continui allarmi per il possibile cedimento dell’infrastruttura lanciati dagli americani, vedi i citati rapporti dell’Army Corps of Engineers, il ministro al-Shammary ha affermato che  “Tali previsioni sarebbero corrette se la quantità di acqua nel bacino fosse al massimo, mentre attualmente è solo a un quarto”. Una situazione dovuta alla carenza di piogge e alla riduzione della quantità di acqua lasciata passare dalla Turchia negli ultimi due anni.Sulla base dei risultati raccolti al-Shammary e altri quattro ministri hanno presentato al governo un rapporto in cui non si fa alcun riferimento a un possibile imminente crollo e ha confermato che l’appalto assegnato alla Trevi prevede di “aumentare e rafforzare” le iniezioni di cemento nelle fondamenta e di riparare un’apertura di scarico che serve a ridurre la pressione dell’acqua sulla diga in caso di emergenza. Quindi lavori limitati.

L’APPALTO

La Farnesina ha informato il 2 marzo che è stato firmato il contratto tra la società Trevi S.p.A. di Cesena con le autorità irachene, Ministero delle Risorse Idriche, per i lavori di consolidamento della diga di Mosul. Il progetto prevede due interventi da svolgere in contemporanea. Il primo riguarda il rafforzamento delle fondamenta con iniezioni di cemento. Il secondo la riparazione di una delle due paratoie, cioè le aperture a monte che vengono azionate quando è necessario scaricare acqua per diminuire la pressione sulla diga.

La tv di Stato irachena, che ha diffuso per prima la notizia, ha indicato in 273 milioni di euro il valore del contratto. Nella versione originale il valore dell’intero progetto era di circa a 1,9 miliardi di dollari da realizzare in 5-7 anni.L’impatto di questa commessa sul conto economico di Trevi è stato positivo, A Piazza Affari il titolo Trevi ha avuto un aumento del 5,26% .In un’intervista al Quotidiano Nazionale Stefano Trevisani AD della Trevi da dichiarato: “I lavori dureranno un anno e mezzo, fino a ottobre dell’anno prossimo. Gli italiani saranno una settantina, i locali almeno 250. Poi stranieri di altre nazionalità. Il cantiere sarà pienamente operativo da metà settembre e e riprenderemo la manutenzione che si faceva prima, certo con tecnologie più all’avanguardia”.Carlo Crippa, area manager per l’Iraq ha spiegato sempre a QN che “bisogna intervenire con perforazioni e iniezioni di miscele cementizie”.

Circola l’ipotesi che la Trevi abbia una relazione importante con il governo  di Renzi. Ipotesi che potrebbe essere provata anche dalla presenza nel Consiglio d’Amministrazione di Marta Dassù come consigliere non esecutivo e indipendente. Esperta di politica internazionale di area PD già sottosegretario e viceministro degli Esteri con i governi Monti e Letta, la Dassù è stata consigliere di Massimo D’Alema e recentemente è stata voluta da Renzi all’interno del cda di Finmeccanica, che a differenza della Trevi però è un’azienda pubblica.

Il contratto è del tipo ‘cost plus’: la quantità dei finanziamenti sarà calibrata passo dopo passo secondo quelli che saranno i costi e il profitto dell’impresa è garantito.

Per finanziare il progetto Baghdad ha chiesto e ottenuto un prestito alla Banca Mondiale.

SITUAZIONE ATTUALE

L’agenzia di notizie Il Velino, riprendendo fonti curde, ha diffuso la notizia Il 10 aprile ha inviato nel Kurdistan iracheno a Erbil, distante da Mosul un’ottantina di chilometri, nuovo contingente di soldati e mezzi nel quadro della lotta contro lo Stato Islamico.Questo contingente, composto da 130 soldati e 8 elicotteri, ha sostituito un reparto americano privo di elicotteri d’attacco. Negli stessi giorni l’ANSA, sempre da fonti locali ha informato che militari italiani hanno effettuato un’ispezione in diga e perso contatto con i peshmerga che la presidiano per organizzare le truppe,450 soldati, che saranno addette alla sicurezza del cantiere e dei lavoratori della Trevi.

L’ Associated Press ha scritto che il primo team di tecnici italiani della ditta Trevi è arrivato giovedì 14 aprile a Mosul per iniziare la preparazione del campo in cui sarà posizionato il resto della squadra che si occuperà dei lavori di sistemazione della grande diga. Fonti italiane ben informate dicono che, in realtà, si tratta di un solo responsabile, inviato momentaneamente per seguire l’avvio dei lavori per la realizzazione del compound che ospiterà i lavoratori. Dunque se ne occuperanno gli iracheni della realizzazione del campo che ospiterà i tecnici della Trevi previsti per metà, fine giugno. I militari italiani forniranno la sicurezza all’intera area della diga mentre la protezione ravvicinata al personale italiano della Trevi sarà affidata a contractors della società britannica Pilgrims, presente da ben 12 anni in Iraq e che ha il 27 febbraio scorso ha visto rinnovata la sua licenza operativa dal Ministero degli Interni di Baghdad.

RIFLESSIONI

Durante L’Iraq Crisis Conference tenutasi a Roma il 19 e 20 aprile scorsoJamal al-Dhari Presidente del Pafi e partigiano del principio di autodeterminazione dei popoli in Iraq, ha ben raccontato l’Iraq di oggi che ha descritto come un paese “schiavo dell’occupazione ed esportatore del terrorismo” ed non ben compreso. L’origine della situazione sono gli Stati Uniti, che hanno invaso l’Iraq pur non avendo ottenuto alcuna legittimazione dalle Nazioni Unitee hanno contribuito a creare un sistema politico che con il tempo si è rivelato fatale per la stabilità del Paese. Tale sistema non ha fatto altro che alimentare il settarismo, perché fondato su una spartizione del potere su base etnico-religiosa. Al-Dhari ha accusato gli americani anche di “essersi ritirati dall’Iraq lasciando i suoi confini aperti”, il che non ha fatto altro che facilitare “l’ingerenza iraniana e l’insorgenza della guerra civile”. Al-Dhari ha avuto parole dure anche per la classe politica irachena, corrotta e inetta, in cui figurano un Parlamento, “che a oggi non ha mai svolto le sue mansioni”, e “dei ministri che sono al servizio delle diverse fazioni ideologiche, piuttosto che del popolo iracheno”. Da qui, la piaga del terrorismo, di cui l’Iraq è esportatore, che nasce dalla corruzione e che spinge, a sua volta, i cittadini, insoddisfatti della gestione della res publica, a radicalizzarsi e a sostenere quelle organizzazioni terroristiche.

Questo è il quadro generale dove si inserisce l’ulteriore invio di soldati italiani.

Con l’avventura di Matteo Renzi nell’area della diga di Mossul nella divisione dei compiti della coalizione anti Isis, guidata dagli Stati Uniti, l’Italia passa da sostegno militare e fornitura di armi a un ruolo attivo di vero e proprio intervento militare. Il contingente militare con l’invio di 450 militari diventerà il contingente straniero più numeroso in Iraq. Nel cuore poi del confronto armato con l’Isis. L’obiettivo di difendere il cantiere di un’impresa privata con consistenti forze militari, uomini e mezzi, è incongruente. La partenza del contingente è attualmente stimata tra maggio e giugno 2016.

Analisi Difesa un magazine on-line che si occupa tematiche militari in un articolo dal titolo significativo, Roma invia in Iraq forze da combattimento per fare la guerra, fornisce in articolo recente importanti informazioni sulla reale portata dell’operazione.

http://www.analisidifesa.it/2016/04/roma-invia-in-iraq-forze-da-combattimento-per-fare-la-guerra/

I punti dell’articolo sono i seguentiVerso la diga, Perplessità, Quali obiettivi reali? Verso un ruolo “combat” dell’Italia?

Restano tutti gli interrogativi per uno sforzo militare nazionale ancora una volta richiesto dagli Stati Uniti, ad alto rischio per i nostri militari ma che garantirà la sicurezza anche ai lavori di riparazione dell’impresa italiana Trevi.Schierare 500 militari in quell’area comporterà un costo stimabile in almeno 50 milioni annui senza contare le spese logistiche per schierare mezzi, armi ed elicotteri, necessari ad assicurare i collegamenti ed eventuali evacuazioni sanitarie tra Erbil e la base istituita nella diga.

A livello istituzionale la vicenda dovrebbe essere discussa in dettaglio in Parlamento. Lo scorso 16 gennaio Basilio parlamentari M5s presentarono un’interrogazione, ma la riposta del sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano è stata ampiamente insufficiente.

A livello di movimento deve crescere l’opposizione a questa decisione del governo di Matteo Renzi di inviare centinaia di soldati italiani alla diga di Mossul. Vanno cercate delle alternative all’intervento militare a difesa della diga, per esempio il controllato svuotamento del bacino d’acqua, fino a che la riparazione potrà avvenire in una situazione di pace.

Si segnala il link con un articolo pubblicato da Pressenza i primi di marzo 2016 dove si raccontano alcune iniziative di opposizione che vanno sviluppate.

http://www.pressenza.com/it/2016/03/mosul-lintervento-italiano-rischi-delle-grandi-dighe/

Venezuela: la derecha hacia la intervención armada

ebe12985-9491-4bf5-aa60-848eeb2b7a9dpor @arleninaguillon

Medianálisis, 29abr2016.- El escenario en Venezuela está claro: La extrema derecha, nacional e internacional, coordina una insurrección armada. Veamos algunas consideraciones.

1.- El martes, el Ministro de Defensa, Vladimir Padrino López, alertó que la delincuencia organizada formó una alianza con células paramilitares para ejecutar acciones terroristas en el país y tumbar al Presidente Nicolás Maduro. Padrino López, incluso, confirmó una serie de asesinatos selectivos que estos grupos estaban cometiendo;

2.- En abril, se han ejecutado cuatro ataques terroristas a instalaciones eléctricas en el país, confirmó el Ministerio para la Energía Eléctrica;

3.- En Maracaibo, entre lunes y martes, desplegaron una decena de células terroristas que ocasionaron destrozos en varios puntos de la capital zuliana;

4.- Ayer, el director de la Escuela de Inteligencia y Contrainteligencia de la Fuerza Armada Nacional Bolivariana, Jesús Barrios, alertó que Estados Unidos podría estar tras las reservas del Banco Central de Venezuela. Barrios presentó 5 documentos que confirman su denuncia;

5.- El diputado Diosdado Cabello denunció que, desde EEUU, el mayor general Hebert García Plaza, prófugo de la justicia venezolana, coordina acciones golpistas;

6.- Desde Rusia, el almirante Remigio Caballero, jefe del Estado Mayor Conjunto de la Fuerza Armada Nacional Bolivariana, confirmó que una Guerra No Convencional se estaba ejecutando en Venezuela;

7.- Parlamentarios opositores estuvieron en Washington cumpliendo una intensa agenda golpista en la OEA y otras instancias;

8.- Senado de EEUU extendió, hasta 2019, las sanciones a Venezuela;

9.- El senador colombiano Iván Cepeda alertó sobre el incremento de la presencia paramilitar en la subregión del Catatumbo, situada en el noreste del país, limítrofe con Venezuela;

10.- Una agenda de diez días en el exterior cumplieron fichas de Voluntad Popular, buscando financiamiento y alianzas políticas.

Napoli 2mag2016: ricordiamo i martiri di Odessa

di Comunità Ucraina Antifascista

lunedì 2 maggio – dalle 17 – Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo

– “Accendi la candela della memoria…”

Mostra fotografica e commemorazione dedicata alla strage di Odessa, organizzata con la comunità ucraina antifascista!


– Aperitivo

– Proiezione di NAPOLI – ATALANTA e braciata!

Il 2 maggio 2014 gli squadroni di Pravy Sektor e Svoboda, le principali organizzazioni naziste in Ucraina attaccano alcuni gruppi di oppositori al governo di Kiev che avevano allestito tende e gazebo per chiedere la federalizzazione dell’Ucraina, il riconoscimento della lingua russa e per protestare contro il colpo di stato con cui, nel febbraio precedente, era stato deposto il legittimo presidente Viktor Janukovič. I manifestanti si rifugiano dentro la Casa dei Sindacati, che viene circondata dal folto gruppo di neonazisti. A questo punto entrano in azione veri e propri gruppi paramilitari, che bloccano l’ingresso del palazzo e iniziano a incendiarlo con un fitto lancio di bottiglie molotov. Oltre 100 morti, tantissimi arsi vivi, con la piena complicità mediatiche e politiche delle Istituzioni Internazionali e dei Governi Occidentali – che hanno fatto di tutto nei giorni immediatamente successivi per insabbiare l’accaduto e nasconderne i responsabili.

http://ilmanifesto.info/a-odessa-si-ricorda-la-strage-neonazista/

http://www.carmillaonline.com/2015/05/05/dossier-odessa/
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Je so’ pazzo è un ex-opg (ospedale psichiatrico giudiziario) occupato nel marzo 2015 da un gruppo di studenti, lavoratori, disoccupati, per sottrarlo all’abbandono e per restituirlo alla città, per ricostruire la memoria di questo luogo terribile di esclusione e tortura, e lanciare percorsi di mobilitazione a partire dalle nostre concrete esigenze: dal lavoro al territorio, dalle scuole alle università, dalla casa alla sanità.

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Come arrivarci?
– Metro Linea 1: Fermata Materdei
(5 minuti a piedi verso Salita San Raffaele)
– Dal centro storico (15 minuti a piedi):
arrivare al museo nazionale e salire via Salvator Rosa,
all’incrocio con via Imbriani ci trovate sulla destra.

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Ex Opg Occupato – Je so’ pazzo
pagina facebook: https://www.facebook.com/exopgjesopazzo
sito web: http://jesopazzo.org/
twitter: https://twitter.com/ExOpgJesopazzo

(FOTOS) Caracas: Todo el Poder para el Pueblo!

por ALBATV

Utilizando la consigna “Todo el poder para el pueblo, unidos contra el fascismo, el entreguismo y la corrupción” militantes de diversas organizaciones sociales se concentraron este sábado, en las inmediaciones de la Plaza O´ Leary para marchar hasta la Plaza Bolívar de Caracas, con el objetivo de llamar a todas las fuerzas revolucionarias a organizarse en una nueva alternativa de poder popular que permita radicalizar y profundizar la Revolución Bolivariana.

La convocatoria que agrupó a 25 organizaciones populares, reiteró el compromiso de sus integrantes con el legado del comandante Chávez y las luchas del pueblo por un mundo mas justo y libre de las acciones del imperialismo yanqui.

Al respecto, Oscar Figuera secretario general del Partido Comunista de Venezuela indicó que a través de la construcción de un nuevo instrumento de unidad social se podrán levantar las banderas de todas las corrientes para enfrentar los retos impuestos por la derecha y encausar todas las fuerzas del pueblo en la dirección necesaria. “En la medida que podamos avanzar unidas y unidos hacia la liberación nacional, hacia el socialismo verdadero podremos cumplir con los objetivos que demanda la patria y la unidad latinoamericana”.

“El poder está en disputa y debemos luchar para conquistarlo e impedir que el fascismo y el entreguismo se apoderen de él y lo utilicen en contra del pueblo, el proceso revolucionario no ha terminado”, expresó Rubiel Romero representante del Sindicato de Trabajadores Socialista de Empresas Polar.

“Se necesita del concurso de todo el movimiento popular revolucionario que desde diferentes iniciativas y formas de lucha construyen esta patria soberana e independiente. Debemos superar los obstáculos e insistir en los procesos de construcción del poder popular desde las bases, materializar el Golpe de Timón señalado por el comandante Chávez, haciendo realidad la comuna como germen de la nueva sociedad”, reiteró Romero.

Ante un escenario adverso para países liderados por gobiernos populares como Brasil, Ecuador, Bolivia y Venezuela, el pueblo chavistas cierra filas con el fin de consolidar un bloque de lucha contra las fuerzas oligárquicas que pretenden acabar con los logros sociales, políticos y económicos alcanzados por el pueblo en 17 años de la revolución.
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Atilio Boron: tamburi di guerra in Venezuela

Attilio Boron: Tamburi di guerra in Venezueladi Atilio Boron

L’impero ha mobilitato tutti i suoi ingranaggi e dispositivi per porre fine, a qualunque prezzo, alla Rivoluzione Bolivariana anche a costo di gettare il paese in un bagno di sangue
 
Dalle sue origini il processo bolivariano è stato identificato da Washington come un’escrescenza che doveva essere rapidamente rimossa dell’emisfero.

Si è tentato di farlo con tutti i mezzi ma niente ha dato risultati: né il colpo di stato, né la disoccupazione petrolifera, né le molestie diplomatiche, politiche e mediatiche hanno dato i loro frutti.

Sul terreno elettorale il predominio di Chávez era schiacciante: resisteva a piedi fermi alle pressioni ed il suo popolo lo seguiva con entusiasmo.

La Casa Bianca ha accelerato l’aggressione una volta scatenato il lento ma implacabile assassinio per tappe del Comandante. E dopo la sua morte l’offensiva ha assunto caratteristiche ancora più brutali. Ogni discrezione è stata lasciata da parte: bande mercenarie dell’uribismo (legate a Álvaro Uribe Vélez, ex presidente colombiano che si oppone al dialogo con le FARC, NdT) sono entrate seminando violenza e morte per tutto il paese, come oggi lo fanno i “mareros” che quotidianamente (sì, quotidianamente, secondo quello che riporta un’alta fonte ufficiale di El Salvador!) Obama rilascia dalle prigioni nordamericane per inviarli, con tutte le carte in regola, al rassegnato paese centroamericano affinché seminino il caos e la distruzione.

 
Si sono intensificati gli sforzi per “fortificare la società civile” con milioni di dollari per fabbricare o affittare politici da operetta (Capriles, López, Ledesma, eccetera); giornalisti in altri tempi ciechi davanti alle stragi della corruzione ed intellettuali delusi perché il “popolo” che anelavano redimere non era bianco come gli operai polacchi di Lech Walesa bensì meticcio o nero come Chávez, cosa che costituisce un affronto insopportabile.

In mancanza di una risposta politica nella cornice elettorale i soldi fluivano copiosamente verso Caracas: partivano da Washington, via USAID o tramite la NED, volavano a Madrid da dove il ruffiano leccapiedi di George W. Bush, José M. Aznar, lo ridistribuiva tra i suoi complici in America Latina con la benedizione di quel colossale monumento al narcisismo chiamato Mario Vargas LLosa. Ma tutto era vano: come un redivivo Cid Campeador (eroe nazionale spagnolo) tropicale, anche dopo morto Chávez continuava a vincere le elezioni. Le vinceva con Nicolás Maduro nelle presidenziali dell’Aprile del 2013 e dopo, per sovrappiù, nelle municipali del dicembre di quello stesso anno.

 
Falliti tutti questi tentativi, la guerra economica, perfezionando il piano criminale perpetrato contro il Cile di Allende, si è scatenata con tutta la furia.

La penuria programmata, l’accaparramento di articoli di prima necessità, la carestia, la feroce svalutazione della moneta, il contrabbando su grande scala, il terrorismo mediatico senza freno né misura, gli assassini selettivi e, agli inizi di 2014, il piano sedizioso materializzato nelle sinistre “guarimbas” (barricate per le strade), con un saldo di 43 morti, in maggioranza tra le forze di sicurezza del governo e simpatizzanti chavisti, e distruzione di veicoli, sedi di istituzioni governative, scuole, università ed ospedali valutate in centinaia di milioni di dollari.

I responsabili di tutto questo, in prigione, si lamentano che sono “prigionieri politici” quando i loro atti si inquadrano nel delitto di sedizione che in qualunque altro paese del mondo li avrebbe condannati alla prigione a vita. Nella “dittatura bolivariana”, invece, la giustizia ha operato con una sorprendente clemenza ed al capo di questi crimini ha imposto una sentenza di poco più di tredici anni. In Spagna o in Argentina sarebbe stato condannato all’ergastolo e negli Stati Uniti alla pena di morte. Ma così è la “dittatura” chavista.

 
Fallite tutte queste cospirazioni l’impero ha intensificato la guerra economica: insieme a sue infami creature, lo Stato Islamico, ha abbattuto il prezzo del petrolio da poco più di 100 dollari al barile a qualcosa meno di 30. Non contento di questo il Presidente Barack Obama ha emesso un ordine esecutivo che se non fosse criminale per le sue conseguenze sarebbe una presa in giro universale: Il “Venezuela è una minaccia inusuale e straordinaria alla sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti”. E’ stato l’ordine impartito ai cani da guardia dell’impero perché si lanciassero con ferocia contro la rivoluzione.
 
Da allora la vita quotidiana si è complicata fino a diventare un irritante calvario. Per questo motivo nelle elezioni per l’Assemblea Nazionale del passato 6 Dicembre l’opposizione ha ottenuto una maggioranza di due terzi, beneficiando dello scoraggiamento di più di due milioni di chavisti che non hanno dato i loro voti alla destra ma che si sono astenuti dal partecipare alle elezioni.

L’Assemblea ha appena approvato una legge di amnistia che libererebbe tutti i condannati per i crimini commessi nell’episodio sedizioso all’inizio del 2014. Il Tribunale Superiore ha dichiarato l’incostituzionalità della legge ed il presidente Maduro ha dichiarato che non promulgherebbe mai una diavoleria simile che aprirebbe la porta alla violenza e all’impunità in Venezuela.

La situazione si avvicina ad uno scontro catastrofico di forze ma il chavismo, senza alcun dubbio ed oltre i suoi problemi e le sue titubanze, ha chiaramente dalla sua parte il popolo che sa con istinto preciso che la destra viene col coltello tra i denti ed è disposta ad applicare un monito esemplare. Le istruttive lezioni del macrismo in Argentina hanno persuaso delle terribili conseguenze di un ritorno della reazione anche quelli che prima dubitavano che potesse essere così.

 
Dato tutto questo non sorprende che negli ultimi giorni ci sia stata un’intensificazione dell’offensiva destituente. Il Washington Post ha pubblicato un editoriale sfacciatamente golpista il 12 di Aprile dicendo che “il Venezuela ha disperatamente bisogno di un intervento politico dei suoi vicini, che per questo dispongono di un meccanismo appropriato nella Carta Democratica Interamericana dell’Organizzazione degli Stati Americani, la OSA, un trattato che contempla l’azione collettiva quando un regime violi le norme costituzionali”.

Il giornale, solitamente considerato dai neoliberisti il modello della “stampa imparziale ed indipendente”, si lamenta che i paesi della regione non si assumono le loro responsabilità per preservare la democrazia in Venezuela nonostante il fatto che, assicura, per il modo in cui stanno le cose “probabilmente non tarderà molto a prodursi di un’esplosione”.

Il Washington Post non fa altro che ripetere quello che poco prima aveva esposto un documento del Comando Sud, denominato “Operazione Venezuela Freedom-2” e siglato il 25 febbraio del corrente anno con la firma del suo attuale capo, l’ammiraglio Kurt Tidd. In esso si legge che “sebbene (l’opposizione) stia seguendo la strada pacifica, legale ed elettorale (per provocare la destituzione di Maduro) è cresciuta la convinzione che sia necessario fare pressioni con mobilitazioni di strada, cercando di fermare e paralizzare gli importanti contingenti militari che saranno dedicati a mantenere l’ordine interno e la sicurezza del governo, situazione che diventerà insostenibile nella misura in cui si scatenino conflitti multipli e pressioni di ogni tipo”.

 
Afferma l’ovvio: la destra non ha mai creduto nelle regole del gioco democratico. Quando le accetta è per convenienza, non per convinzione. E le abbandona non appena le circostanze suggeriscano di seguire il cammino verso la restaurazione violenta. In Venezuela e da tutte le parti, è fondamentale non sbagliarsi su questo punto. Tutto il clamore che l’opposizione antichavista fa in relazione al referendum revocatorio è un tappabuchi: quello che vuole è “l’uscita”  di Maduro, per opera e grazie alla violenza.
 
Aprile sembra essere il mese delle rese dei conti nella politica venezuelana. “Aprile è il periodo giusto”  ha detto il presidente Nicolás Maduro in una riunione coi partecipanti dell’Incontro di Intellettuali, Artisti e Movimenti Sociali che ha avuto luogo recentemente.

L’11 Aprile del 2002 c’è stato il colpo di stato contro Chávez, ed il 13 il paese lo reinstallò nel Palazzo di Miraflores. Non è casuale l’attacco del Washington Post proprio in questi giorni, né che una delle organizzazioni sediziose che distrussero il paese in passato, Volontà Popolare, abbia convocato una marcia il 19 di Aprile per esigere l’”uscita” del presidente Maduro. Non lo è neanche che il Segretario Generale dell’OSA, Luis “Giuda” Almagro, abbia dichiarato pochi giorni fa in un’intervista a El País di Spagna che è inammissibile mantenere la neutralità in Venezuela “quando ci sono prigionieri politici e la democrazia non sta funzionando.” Almagro ha ricevuto il chiaro ordine dei suoi capi a occuparsi solo di fustigare il Venezuela e di dimenticarsi dei massacri perpetrati in Honduras (Berta Cáceres), Messico (Ayotzinapa), Colombia (130 militanti di Marcia Patriottica assassinati nell’ultimo anno), e Paraguay (Curuguaty), per non menzionare nient’altro che i casi più emblematici. L’OSA ratifica la sua condizione di Ministero delle Colonie degli Stati Uniti, come opportunamente l’avevano definita Fidel ed il Che.

 
Come si può vedere, l’impero ha mobilitato tutti i suoi ingranaggi e dispositivi per porre fine, a qualunque prezzo, alla Rivoluzione Bolivariana anche a costo di gettare il paese in un bagno di sangue. Ma il paese chavista offrirà un’accanita resistenza ad un’invasione del Comando Sud ed accorreranno in suo aiuto volontari da tutta l’America Latina trasformando l’invasione nordamericana in una causa della Patria Grande che incendierà la rinsecchita prateria sociale della regione oltrepassando i confini venezuelani, estendendosi ai paesi vicini e compromettendo seriamente i Dialoghi di Pace tra le FARC ed il governo colombiano. Per questo, la solidarietà con il popolo ed il governo bolivariani è oggi più urgente ed importante che mai per impedire che la sinistra manovra interventista dell’impero giunga a compimento.
* Pubblichiamo su gentile concessione della redazione di MarxXXI

Trump il “fascista”: l’altro lato di una psicopata politica di nome Hilary

Clintondi James Petras

12apr2016.- Da sinistra a destra un rauco coro si è levato a denunciare il candidato presidenziale repubblicano di punta in quanto “fascista”. Essi  citano le sue promesse durante la campagna di costruire un muro in stile israeliano lungo il confine degli U.S.A.; le sue minacce di espellere undici milioni di immigrati senza documenti; e di proibire ai Musulmani stranieri di entrare negli U.S.A., come anche il modo in cui la sua faccia pugnace e il braccio assomigliano a quelli di Benito Mussolini (’proietta in fuori il mento, solleva il braccio’).

Si considera il suo estremo nazionalismo come ‘rassomigliante alla politica di Hitler’, con le quali parole si intende la sua opposizione ad accordi di libero commercio sfavorevoli e al suo slogan: “Rendiamo grande l’America. Di nuovo.”

In questo articolo, analizzerò criticamente la corrente immagine da cartone animato del fascismo, confrontandola con la realtà storica del fascismo, e poi procederò ad analizzare la politica del cosiddetto “male minore”, che sta dietro la re-invenzione di un fascista americano alla maniera del miliardario Donald Trump.

Il fascismo: realtà e finzione

Storicamente, la politica fascista ha coinvolto movimenti di massa organizzati, milizie armate e gruppi paramilitari, che hanno aggredito gli avversari politici, censurato il discorso critico violentemente e represso il diritto di riunione. Il fascismo ha reso le minoranze capro espiatorio, in particolare zingari ed Ebrei, ha bruciato i sindacati e le sedi della sinistra, ha assassinando i loro leaders e picchiando i loro membri. Programmaticamente, hanno attaccato i pacifisti e difeso le guerre d’oltremare e gli imperi, in nome dello ‘spazio vitale’. Evocando un passato di gloria imperiale, essi non erano ‘isolazionisti’.

Il candidato Trump non ha organizzato qualcosa di simile a un movimento di massa, per non parlare di una milizia armata. Non ci sono ‘strombazzanti camicie brune’. Al massimo, la polizia e una manciata di suoi (spesso anziani) sostenitori bianchi hanno preso a pugni alcuni provocatori vestiti da KKK, che hanno fisicamente interrotto e minacciato gli incontri pubblici di Trump e il suo esercizio di libertà di parola. In realtà, l’interruzione ‘fascista’ delle libertà democratiche sembra essere per lo più organizzata e praticata dai suoi rivali politici.

Trump, lungi dal fare capro espiatorio della potente minoranza ebraica di questo paese, ha tenuto un discorso spudoratamente Israele-centrico e ha ricevuto una standing ovation da quasi 18.000 Ebrei in gran parte prominenti, in occasione della riunione del marzo 2016 della principale lobby pro-Israele (AIPAC).

La sua retorica, per quanto riguarda l’espulsione di 11 milioni di lavoratori senza documenti provenienti dal Messico e dall’America centrale e la costruzione di un muro di confine, è ben lontana dalla pratica di imprigionare e violentemente espellere oltre due milioni di latinos senza documenti sotto i regimi di Clinton-Bush-Obama / Clinton. Nel peggiore dei casi, Trump promette di continuare la politica federale vigente in materia di immigrazione e non di creare una rottura ‘fascista’ con le amministrazioni precedenti. È forse un ‘muro di cemento di retorica’ peggiore del vero muro di polizia di frontiera armata, elicotteri e vettori armati che hanno operato sotto le presidenze di Clinton – Bush – Obama/Clinton, con le loro centinaia di morti di migranti nel deserto? Sono le dichiarazioni di una politica di immigrazione repressiva, provenienti dai discorsi altisonanti di Trump, più ‘fascisti’, rispetto alla pratica ufficiale di strappare violentemente i lavoratori privi di documenti dalle loro case e luoghi di lavoro e assoggettarli alla reclusione a lungo termine e all’espulsione? Espellere giovani, cresciuti ed educati in questo paese, o separare violentemente famiglie produttive, ben integrate e imprigionando i loro principali sostenitori per mancanza di documenti … questa è la politica ufficiale dell’attuale e delle ultime tre amministrazioni.

C’è molto di meno dell’approccio veramente fascista della guerra preventiva e dell’invasione nei discorsi di Trump che nelle reali politiche perseguite dai regimi di Clinton-Bush-Obama/Clinton. In effetti, tra i numerosi critici di Trump, in particolare i suoi rivali Repubblicani e il campo di Hillary Clinton, sentiamo le più forti denunce della sua politica estera non interventista (isolazionismo), che è “fuori linea” con gli interventisti, le guerre d’oltremare della corrente amministrazione e di quelle repubblicane e democratiche del passato. I critici di Trump e gli esperti dei media sono ‘inorriditi’ dalla sua apparente disponibilità a cooperare con il presidente russo Putin contro i nemici comuni, come l’ISIS. Il suo approccio pragmatico verso la Russia è più o meno fascista del sostegno dei suoi rivali al putsch ucraino, orchestrato dal regime di Obama in alleanza con i fascisti ucraini anti-semiti armati bona fide? Le sue invocazioni a scaricare la NATO come una costosa zavorra per il Tesoro degli Stati Uniti e la manodopera hanno portato l’élite a ululare in oltraggio!
I propagandisti, che dipingono Trump come un moderno fascista americano, citano le sue rozze osservazioni sessiste come “esempi di un totalitario misogino”, mentre si punta favorevolmente al candidato democratico Hillary Clinton come potenzialmente il ‘primo presidente femminista’. Per quanto riguarda la sua presunta misoginia, ‘Donald’ ha attaccato la promozione e il ruolo strategico della Signora First Lady, Senatrice e Segretario di Stato Clinton nelle guerre degli Stati Uniti contro la Libia, l’Iraq e la Siria, dove oltre un milione di donne sono stati rese profughe, violentate, ferite o uccise. Cosa è peggio, ci si può chiedere: crude battute da spogliatoio o milioni di bambini e bambine orfani cui sono stati negati i genitori, le case, gli studi e un eventuale futuro nel Medio Oriente e in Nord Africa? Questo è il mondo che l’Ostetrica Hillary Clinton ha contribuito a far nascere.

La misoginia è nell’occhio del seduttore.

Gli attacchi verbali di Trump sulla pratica delle multinazionali U.S.A. di trasferirsi all’estero per evitare le tasse e delle società finanziarie di Wall Street che nascondono i miliardi delle élites statunitensi oscenamente ricche nei paradisi fiscali off-shore, sono forse più dannose per i “valori americani” (come vuole l’accusa)  dell’assecondamento di Wall Street da parte di Hillary Clinton, che intasca più di $ 300.000 per ogni prestazione da sicofante di 45 minuti  (pubblicizzate come ‘conferenze sulla politica “), o i suoi decenni spesi a promuovere attivamente la globalizzazione – compreso il NAFTA, che ha distrutto posti di lavoro negli Stati Uniti?

È chiaro che Trump attualmente manca del programma, dell’organizzazione e della pratica che definiscono un politico fascista. Nella peggiore delle ipotesi, imita a pappagallo la linea generale di attacco contro gli immigrati e i Musulmani. Finora, li espellerebbe semplicemente dagli Stati Uniti, ma non li bombardarebbe riportandoli indietro ‘all’età della pietra’. Questo dovrebbe essere confrontato con le attuali politiche realizzate dai criminali di guerra Clinton / Bush / Obama-Clinton. Sarebbe difficile per Donald ‘vincere a briscola’ contro Hillary, quando questa ha minacciato di ‘cancellare l’Iran’ e le sue decine di milioni di cittadini, a causa del ‘programma nucleare’ fittizio dell’Iran.

D’altra parte, gli stessi incontri e raduni di Trump sono stati vittima di ripetute interruzioni da parte di gruppi organizzati, che agiscono come delinquenti fascisti. Inversione di ruolo nella vita reale: Trump, il bersaglio di rabbiosi ripetuti attacchi da parte dei mass-media, viene definito fascista.

Battere Trump: un sostegno di riserva per Hillary, la militarista psicopata

Se il caso oggettivo per l’etichettatura di Trump come ‘un fascista’ è debole o inesistente, perché così tanti accademici di prestigio e giornalisti giocano questo stupido gioco di definizioni?
La spiegazione di buon senso delle loro spacconate raffazzonate è che promuovono il ‘Trump-Drago di Paglia’, al fine di portare avanti la malefica Signora Segretario Hillary Clinton come il ‘candidato- male minore’ a Presidente degli Stati Uniti.

Nessun osservatore serio minimamente a conoscenza dell’abbraccio carnale di Clinton verso le molteplici simultanee guerre, disastrose e distruttive, in Ucraina, Iraq, Afghanistan, Yemen, Siria e Libia, potrebbe sostenerla – a meno che non siano convinti che un pericolo maggiore si profila all’orizzonte e che “noi dobbiamo sconfiggere Trump il fascista a tutti i costi “? Nessun serio democratico o impiegato salariato e stipendiato può ignorare il ruolo di Madame Clinton come la ruffiana più sfacciata di Wall Street, a meno che non credano che un altisonante ‘fascista di New York sia peggio di Wall Street.’

L’allarmismo falso sul “fascismo” di Trump serve solo a coprire la più servile promozione da parte di Clinton di guerre traditrici a vantaggio di Israele. Si dovrebbero immaginare le migliaia di rifugiati siriani disperati aggrappati alle decrepite imbarcazioni nel Mediterraneo durante la lettura di stralci delle e-mails private di Clinton: secondo Wikileaks, Hillary ha dichiarato che “il modo migliore per aiutare Israele a fronteggiare la crescente capacità nucleare dell’Iran (sic) è aiutare (sic) il popolo della Siria a rovesciare il regime di Bashar Assad. … La caduta della Casa di Assad potrebbe innescare una guerra settaria tra gli Sciiti e la maggioranza sunnita della regione prospiciente l’Iran, il che, a giudizio dei comandanti israeliani, non sarebbe una brutta cosa per Israele e i suoi alleati occidentali”. Non è una cosa negativa per Israele – ma una politica crudele e criminale contro una nazione sovrana e la sua società multi-etnica. La signora Clinton ha insistito su queste dichiarazioni dementi, che possono essere solo considerate come genocide! Clinton ha promosso la guerra per procura più violenta, sradicando oltre la metà della popolazione civile della Siria e uccidendo centinaia di migliaia di persone, mentre triturava una nazione sovrana. Ha assecondato in tal modo i suoi mentori israeliani e i suoi finanziatori Pluto-sionisti.

Per giustificare il sostegno a una guerrafondaia seriale, un Segretario di Stato U.S.A. che ha servito gli interessi di Israele e una politica che ha fatto commercio carnale dei suoi “principi femministi” con i miliardari di Wall Street, gli untuosi sostenitori di Hillary Clinton hanno dovuto inventare un avversario che è ancora peggio: creare e poi denunciare “Trump il fascista” serve come giustificazione di riserva per il supporto a una psicopatica politica provata!

[Traduzione dall’inglese per ALBAinformazione di Marco Nieli]

Lecce: la democrazia popolare del Venezuela studiata nel Salento

di Geraldina Colotti* – Il Manifesto

Caracas Chiama, il Salento risponde. Capita che dai territori italiani si sprigionino felici alchimie, in grado di creare nessi e progetti oltre gli steccati e le singole appartenenze prefigurando inedite alleanze. E’ andata così nell’ex asilo nido Angeli di Beslan di Lecce, abbandonato al degrado e riscattato a marzo dai cittadini. Nel grande spazio fra gli alberi e la strada di via Franco Casavola, 11, è nato così il Collettivo Terra Rossa, che ha ospitato il Quarto incontro italiano della Rete di solidarietà con la rivoluzione bolivariana, Caracas Chiama.
 
Per tre giorni, reti territoriali, ospiti internazionali, rappresentanze diplomatiche, rappresentanti di alcuni comuni virtuosi,
docenti universitari, comboniani, gesuiti, movimenti e associazioni, hanno messo a confronto esperienze e riflessioni sul tema del potere popolare e della democrazia partecipata, tessendo fili tra la realtà del nuovo socialismo latinoamericano e le esperienze salentine. Il comune di Copertino, uno dei cinque (insieme a Melpignano, Salice Salentino, Zollino, Poggiardo) che hanno appoggiato il IV incontro, e a cui si è successivamente aggiunto il Comune di Galatina, ha consegnato personalmente la delibera nelle mani delle rappresentanze diplomatiche venezuelane, che hanno sostenuto diversi incontri con le istituzioni locali e con le scuole: per mostrare gli orizzonti di un paese che, come il Venezuela (quinto al mondo per numero di matricole universitarie) offre ai giovani la possibilità di scegliersi il proprio futuro, garantendo il diritto al lavoro, a un tetto e la totale gratuità degli studi, compresi i libri, un portatile per alunni e liceali e un Ipad per gli universitari.
 
Nonostante la crisi, nel 2015 il governo ha destinato oltre il 70% delle risorse ai progetti sociali. Chi paga? In parte le grandi imprese (che non possono spadroneggiare, né portarsi tutti i guadagni all’estero), in parte le grandi fortune. Una diplomazia non convenzionale, quella che arriva dal Venezuela e dall’America latina del secolo XXI, in dialogo con i movimenti sociali e con la “società civile”: che, da quelle parti, si riconosce come “società politica”, accompagnando o incalzando i governi eletti per uscire dalla gabbia del neoliberismo degli anni ’90.
 
Associazioni, gruppi territoriali, comitati, hanno una lunga tradizione in Venezuela, codificata dalla nuova costituzione del ’99 e dalle diverse leggi che garantiscono i Consigli comunali e le Comunas, architrave della democrazia partecipativa “e protagonista” di cui si è parlato nella tre giorni. Un incontro che ha suscitato le ire funeste della locale amministrazione di centro-destra e la diffida nei confronti di un’esponente del collettivo. Ma il Terra Rossa è andato avanti, tra i manifesti contro le trivelle e per il sì al referendum (a Lecce si è sfiorato il quorum) e le bandiere dei “popoli che resistono” a cui ha reso omaggio la dichiarazione finale.
 
Le donne sono state il motore trainante dell’iniziativa che, in uno dei suoi tavoli più partecipati ha esaminato le linee di frattura tra movimento operaio e lotta delle donne, tra conflitto di genere e lotta di classe. Migranti del Latinoamerica, donne in Nero, attiviste contro la tratta e del movimento Lgbt hanno condiviso il percorso delle venezuelane che hanno ottenuto una costituzione declinata nei due generi e una reale rappresentanza, diventando la nervatura di un nuovo potere popolare.
 

Il tavolo sull’ecosocialismo ha visto la partecipazione di reti, soggettività e movimenti, come il Comitato No-Tap, interessati alla salvaguardia del territorio contro le multinazionali che devastano il pianeta: in dialogo telefonico con i comitati ambientalisti del Venezuela.

 

A confronto anche lavoratori e sindacalisti di base (Usb e Cobas), luoghi autogestiti come l’ex Opg occupato di Napoli, la fabbrica recuperata RimaFlow e SfruttaZero. L’esperienza di Sfrutta zero a Bari e Nardò si serve di una filiera autogestita composta da migranti e locali che partecipano a tutto il processo produttivo che va dalla semina alla raccolta alla vendita della salsa di pomodoro: per strappare al caporalato e allo sfruttamento i senza-diritti e per sostenerne le lotte con una cassa di mutuo soccorso. Il Venezuela, dove il presidente va a occupare le fabbriche insieme agli operai – si è detto -, può essere un orizzonte per andare oltre l’aspetto puramente rivendicativo delle lotte.

 
Al tavolo su Potere popolare e governo partecipato dei comuni si è messa in rilievo la necessità che anche in Europa e in Italia i comuni diventino soggetti promotori di esperienze di autogoverno territoriale a partire da una valorizzazione delle pratiche mutualistiche e autogestionarie, ma anche sollecitando consorzi produttivi e pratiche di consumo fuori dalle logiche mercantilistiche dominate dalla legge dei grandi capitali. Comunità locali e comuni dovrebbero al contempo stringersi in reti inter-comunali e inter-territoriali in grado di produrre un cambiamento di scala, dal locale al nazionale e poi dal nazionale alla dimensione trans-nazionale, costruendo ponti tra esperienze geograficamente affini.
 
13015607_1719058805050181_5159447054238345382_nI Comuni rappresentano forse l’ultimo baluardo di democrazia in un’epoca in cui le istituzioni politiche nazionali e sovranazionali agiscono perlopiù come traduttori di decisioni assunte al di fuori dei luoghi della rappresentanza. Guardare all’esperimento venezuelano e ai suoi stimoli, implica però una ridefinizione delle categorie e un’operazione di verità: perché lì le cose si sono messe in moto a seguito di riforme strutturali. Da noi, invece, anche il comune più virtuoso e partecipato deve fare i conti con gli indirizzi e i colori del governo centrale.
 
Guardare alle esperienze partecipate del Venezuela, che hanno portato a sintesi le indicazioni più avanzate emerse dai forum sociali – prima di tutto quello di Porto Alegre, in Brasile – consente anche di riflettere su limiti e meriti delle esperienze che, durante l’ultimo governo di centro-sinistra in Italia hanno cercato di proporre un modello “partecipato” di gestione comunale, articolandolo tra conflitto e consenso, fra contropotere locale e indicazioni generali.
 
Significa riflettere, soprattutto, sul ruolo dei movimenti e delle organizzazioni popolari nell’amministrazione e nel governo dei territori quando si inaridisce la luce prospettica. Significa riflettere, insomma, sull’articolazione tra locale e globale: sul nesso che c’è – a partire dalla critica del capitalismo e del suo modello di sviluppo – tra la fontana, gli ulivi, il caporalato o le fabbriche di morte sul nostro territorio, e quel che accade nei sud più lontani, perché il costo e i costi di lavoro e non lavoro si decidono a livello globale.
 

Cosa impariamo dalle “rivoluzioni” latinoamericane? Che i popoli non vincono se non si fanno stato e se non creano le proprie istituzioni. E che la democrazia partecipata non può convivere con quella rappresentativa, uno dei due campi dovrà cedere. E la partita è tutt’altro che facile. Ma, dal sud del mondo a quello dietro casa, vale la pena di giocarla.

* Pubblichiamo su gentile concessione dell’Autrice

Il Brasile sotto attacco, ci risiamo

di Manlio Di Stefano

In Brasile la democrazia è sotto attacco. Con un vero e proprio colpo di stato istituzionale, tutte quelle forze politiche che per ben quattro tornate elettorali sono uscite ampiamente sconfitte dal confronto con il Partito dei Lavoratori (PT), vogliono rovesciare un governo legittimo votato da 54 milioni di brasiliani.

L’obiettivo è ovvio, prendere il potere e attuare quelle misure neo-liberiste che tanti danni hanno prodotto durante la cosiddetta «larga noche neoliberal».

La presidente Dilma Rousseff non è coinvolta in nessuna indagine di corruzione ma il processo di impeachment che la riguarda è basato sull’accusa «di aver manipolato i dati sulla situazione economica in Brasile». Accusa che, con il passar del tempo, si è rilevata sempre più debole tanto da spingere il New York Times a parlare di «motivazioni estremamente dubbie» e il The Economist ad affermare che «senza alcuna prova di reato, siamo di fronte a un pretesto per cacciare un presidente».

La situazione in cui si trova Dilma Rousseff è paradossale visto che ben 318 membri su 594 del Congresso brasiliano, non solo si trovano sotto inchiesta per reati finanziari e corruzione ma, dovranno votare sul futuro di un presidente che non ha compiuto alcun reato o scorrettezza finanziaria.

Durante la votazione alla Camera dei Deputati abbiamo ascoltato le motivazioni più assurde per giustificare l’appoggio alla messa in stato di accusa del presidente in carica: dal «volere di Dio» alla «famiglia», passando per «i militari del colpo di stato del 1964».

L’opposizione – screditata e corrotta – vuole tramite questa operazione arrivare alla destituzione di Dilma Rousseff. Sarebbe il secondo caso per il Brasile dopo la destituzione del liberale Fernando Collor nel 1992. Prima di arrivare a compimento di quello che la presidente ha definito senza mezzi termini «colpo di stato», il Senato dovrà approvare la messa in stato di accusa a maggioranza semplice (42 su 81 senatori) a quel punto comincerebbe il processo a Dilma Rousseff che dovrebbe lasciare il suo incarico per 180 giorni con il passaggio del potere a Michel Temer del Partido del Movimento Democratico Brasileno, formazione centrista che ha rotto la sua alleanza di governo con il Partito dei Lavoratori (PT). La destituzione definitiva dovrà essere approvata con il voto di almeno 54 senatori su 81, i due terzi della Camera Alta.

In questo ipotetico scenario, Michel Temer sarebbe nominato nuovo presidente e avrebbe il compito di portare la legislatura a naturale scadenza nel 2018. Sul politico centrista, però, grava un processo di impeachment così l’incarico passerebbe ad Eduardo Cunha (sotto indagine per svariate attività illecite) che avrebbe l’obbligo di convocare nuove elezioni entro 90 giorni.

Secondo voi chi c’è dietro quest’attacco contro la democrazia brasiliana?

Pochi giorni fa il presidente dell’Ecuador Rafael Correa denunciava come in America Latina sia «in corso un nuovo piano Condor».

Il 14 aprile del 2002, dopo il fallimento del colpo di stato in Venezuela contro il presidente democraticamente eletto Hugo Chavez, sancì l’uscita degli Stati Uniti dall’America Latina la quale poté progressivamente spezzare le catene del Fondo Monetario Internazionale. Poco dopo, nel 2003, gli USA invasero l’Iraq.

E oggi cosa sta succedendo? Presa coscienza del fallimento su tutta la linea in Medio Oriente, Washington tenta nuovamente di ritornare in America Latina con tutti i mezzi illeciti che conosce.

Le tecniche del passato – colpi di stato militari – non possono essere più utilizzate ma Washington trova sempre nuove vie: “inchieste giornalistiche”, impeachment creati ad arte e guerre economiche costanti.

Dal futuro del Brasile dipende il percorso d’integrazione libero ed indipendente dell’America Latina e, di conseguenza, la sorte delle istituzioni dei BRICS.

Tutti i democratici del mondo, quelli veri, oggi dovrebbero stringersi intorno a Dilma Rousseff e al suo partito.

PS: ecco i miei impegni per questo weekend… in movimento
VEN. 22.04 – ORE 18:00 – MILANO: Aperitivo di finanziamento e raccolta firme del M5S Milano per Gianluca Corrado sindaco con Luigi Di Maio. Indirizzo: “Ama.Mi”, Corso Sempione 7, Milano.
SAB. 23.04 – ORE 15:30 – GENOVA: Agorà pubblica su sicurezza e immigrazione. Indirizzo: Piazza Banchi, Genova
DOM. 24.04 – ORE 16:00 – TORINO: Presentazione del programma “Integrazione ed Immigrazione” del M5S Torino per Chiara Appendino sindaco. Indirizzo: “Anatra Zoppa”, via Courmayeur 5, Torino.
DOM. 24.04 – ORE 20:30 – BOLOGNA: Raccolta firme del M5S Bologna per Massimo Bugani sindaco. Indirizzo: “Santo Bevitore”, via Galliera 42, Bologna.
Tutti invitati, non mancate!

“La Resistenza Siriana” (Al Muqāwamat al-Sūriyah)

aaaca cura di Enrico Vigna, marzo 2016

La Resistenza siriana è una organizzazione guidata da Mihraç Ural, anche chiamato Ali Kayali, un turco alawita con la cittadinanza siriana. Inizialmente Ural era il leader di un gruppo clandestino nella provincia di Hatay nel sud della Turchia, il “Partito/Fronte Popolare di Liberazione Turco ‘Acilciler’”.

aaadUna foto di Ural/Kayali con Che Guevara sullo sfondo

Questa formazione rappresentava in particolare la popolazione alawita di Hatay e la difendeva dagli attacchi dell’esercito turco; dopo lo scoppio della guerra in Siria ha completamente spostato la sua zona di operazioni in Siria per combattere il terrorismo fondamentalista a fianco del governo siriano, formando prima il Fronte Iskenderun e ora la “Resistenza Siriana”. L’organizzazione opera in unità con formazioni minori, sulle basi di una piattaforma politica fondata da un lato su posizioni di patriottismo siriano inserito in una analisi marxista e leninista (con una particolare rilevanza alla figura di Che Guevara) e dall’altra sulla missione di difendere le minoranze religiose alawite e sciite duodecimane della Siria; a questi scopi si affianca l’obiettivo di favorire il ritorno alla Siria di quelle aree siriane che da decenni sono occupate dalla Turchia.       

vaassdAli Kayali a Homs con un rappresentante della Chiesa Cristiana, nel solco della tradizionale solidarietà siriana

La milizia è composta anche da curdi, armeni e cristiani, e sono presenti vari ceti sociali siriani ed esponenti di tutte le religioni, sette ed etnie, compresi sunniti.

Iskenderun è una di quelle parti della Siria vittime di conquiste coloniali che hanno amputato questo antico paese, e nel popolo siriano è ritenuto un dovere patriottico cercare di riconquistare questo territorio, considerato sacro nella storia siriana. Questa zona, ricca di risorse naturali, per migliaia di anni ha fatto parte della Siria e fu ceduta alla Turchia dai francesi.

aaafLa regione di Iskenderun è storicamente un’area di tensione e di conflittualità tra Siria e Turchia. Tutto inizia il 5 luglio 1938, quando le forze turche guidate dal colonnello Sukril Kanath lanciarono una aggressione con l’approvazione francese ed attuarono una pulizia etnica delle popolazioni locali armene, cristiane e alalawite. L’invasione turca fu resa possibile dai francesi, che con la Gran Bretagna erano restati come occupanti illegali della Siria, sulla scia del mandato della Società delle Nazioni. I francesi furono gli architetti e i complici di un referendum truccato che stabilì la cessione del territorio siriano di Iskanderun, poi denominato Repubblica di Hatay. Questo furto faceva parte di un accordo segreto per garantire la neutralità della Turchia in vista della guerra che si stava avvicinando con la Germania.

aaadfgSono decenni che la Turchia e Israele, con i paesi occidentali al seguito, accusano la Siria di avere mire espansionistiche; nella realtà dei fatti la Siria storicamente ha perso territori, non si è certo ingrandita. Ha perso il nord della Palestina e la zona di Iskenderun, il Libano nel 1920, il Golan con l’aggressione israeliana del 1967.

Il quartier generale dell’organizzazione è a Latakia e le sue zone di attività militare sono le regioni di Latakia, di Homs, le aree di Jisr al Shughur, Ariha e Azaz. La sua forza militare è stimata in circa 4.000 combattenti. Al fianco dell’Esercito Arabo Siriano e delle Forze di Difesa Nazionale di cui è parte, ha combattuto nelle offensive antiterroriste di Latakia nel 2013 e nel 2014, nella seconda battaglia per gli impianti del gas di Shaer, nelle offensive per la liberazione del nordovest siriano dai terroristi, nell’aprile-giugno 2015 e nell’ottobre 2015. Attualmente è parte della grande controffensiva delle forze siriane per cacciare i terroristi e i mercenari che hanno invaso il paese.

aaagbNelle sue dichiarazioni viene ribadito che questa è una fase storica in cui il governo siriano e il Presidente Assad hanno un ruolo fondamentale di resistenza all’imperialismo occidentale e che non è il momento per creare disaccordi nel paese su problemi secondari o politici interni. Il conflitto prioritario è “quello con i nemici esterni e con i terroristi che vogliono distruggere la nostra nazione“.

Una delle guide spirituali e politiche più note, nonché comandante del Fronte popolare per la liberazione d’Iskenderun,  è stato lo sceicco alawita Muwaffaq al-Ghazal, sempre al fianco di Kayali nelle uscite pubbliche e poi ucciso dai terroristi di Jabhat al-Nusra.

aaaazxcNella propaganda sui canali TV e via web, viene molto utilizzato lo strumento delle canzoni, che esprimono linee guida politiche e sentimenti popolari di massa.  Ad esempio: “Noi siamo gli uomini di muqawama, non accettiamo compromessi, noi vogliamo sradicare il terrorismo”. Oppure: “Noi siamo gli uomini della Resistenza siriana”.  “Noi siamo gli uomini del sole. Noi veniamo dalla gente. Per il tuo popolo, o Siria, noi resisteremo, noi siamo la resistenza siriana“. Molte delle canzoni contengono uno slogan ideato da Kayali: “La Siria non si piegherà mai”. Nei video qui sotto il leader e comandante del Fronte, Ural/Ali Kayali parla ai miliziani:

http://youtu.be/r0cqxgSHf9o

https://youtu.be/vs3IM-9JiXE

https://youtu.be/dfPoT0bIjzw

Questo patriota siriano, Ali Kayali/Urcal, alias “Abu Zaki”, nato come figlio di una terra (Iskanderun) siriana occupata dalla Turchia, ha finito per diventare leader di una delle più efficaci milizie nel nord siriano in questi anni di resistenza all’aggressione terrorista contro il legittimo governo siriano.  

aaacvUral/Al Kayali con Ocalan

Il suo cammino si sviluppa partendo dal consistente aiuto ai siriani palestinesi dato nei primi anni Ottanta, impegno che lo ha portato a Beirut nel 1982 per unirsi alla resistenza contro l’aggressione sionista. Ha guidato le forze del suo nuovo gruppo il Fronte Popolare per la Liberazione di Iskenderun (PFLI) sotto la leadership di George Habash, comandante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), combattendo in una serie di fronti nel sud del Libano e a Beirut ovest. Dopo il ritiro dell’OLP nell’agosto del 1982 si è trasferito a Tartous in Siria. Passò poi in Turchia ma fu catturato e riuscì a fuggire dal carcere, tornando così in Libano a Tripoli dove si unì alle battaglie dell’esercito siriano contro la le milizie islamiche di Al Tawhid guidate da Bilal Shaaban. Quindi il PFLI si spostò nella zona di Halba a Akkar dove organizzò un campo di addestramento della Resistenza, per poi tornare definitivamente in Siria in modo da continuare la lotta per liberare il territorio siriano di Iskanderun. In quel momento il Fronte non era formalmente parte degli apparati militari della resistenza siriana.

Ora a Latakia il PFLI ha la reputazione di essere la migliore forza militare in campo, con una ottima conoscenza della geografia e della politica della costa siriana e delle aree  in cui i suoi combattenti sono attualmente attivi, tra Tartous e la campagna intorno a Latakia, così le zone di Idlib, Aleppo, Homs e Damasco, la pianura di al-Ghab a est di Latakia, a Hama, Jisr ash-Shughur a Idlib, i due villaggi sciiti di Nubl e Zahara nel governatorato di Aleppo, da cui il Fronte ha acquisito numerose reclute. Di tutte queste aree di combattimento, Latakia è naturalmente la più rilevante.

Il PFLI oggi è stretto intorno alla parola d’ordine: “la Siria non si piegherà“. Come ribadisce il comandante Ali Kyali: “il progetto sionista di distruggere l’unità e l’indipendenza della Repubblica Araba di Siria si fonda su due linee strategiche dirette dall’estero, la prima mira a distruggere le conquiste del popolo siriano e il tessuto sociale della Siria, del suo patrimonio multiculturale e la seconda utilizza l’infiltrazione di mercenari stranieri“.

In questo video si può riscontrare il ruolo chiave che il PFLI ha avuto nella battaglia contro l’ISIS nella zona tra Baniyas Tartous e Latakia; nelle immagini si può osservare anche la partecipazione delle donne.

Ai combattenti del PFLI non vengono pagati gli stipendi di cui dispongono le forze sostenute dai paesi del Golfo e dai paesi occidentali che anche li addestrano, i cui pagamenti mensili si aggirano tra 500 e 1000 dollari. Al contrario la milizia popolare filo-governativa composta da circa 4.000 unità e i combattenti della Difesa Nazionale ricevono circa 20.000 sterline siriane o 126 dollari al mese. I finanziatori di gran parte di questi versamenti sono uomini d’affari siriani tra cui Rami Mahlouf, cugino del presidente Bashar Assad.

Le reclute regolari dell’esercito siriano ricevono solo 3000 Lire siriane (circa 20 dollari) al mese, ma essi ricevono anche vitto e alloggio assicurati, così come benefici per la salute e i viaggi. I riservisti dell’esercito siriano ricevono circa 10,50 dollari al mese.

asddcLa famiglia combattente Kayali

Nel PFLI è coinvolta tutta la famiglia Kayali. La moglie, la figlia di Ali e i due figli sono fortemente coinvolti negli obiettivi del PFLI, i figli maschi come miliziani e la moglie e la figlia come combattenti in momenti particolari di bisogno, mentre negli altri momenti sono impegnate nei progetti sociali del Fronte in supporto alla popolazione locale. La figlia di 22 anni, soprannominata “Giovanna d’Arco”, è assistente presso la sanità della milizia, ma è anche considerata una dura combattente, abile nella tattica sul campo di battaglia, fama acquisita grazie ad alcune vittorie da lei preparate in una serie di battaglie contro “i ribelli”. Si tratta di una figura molto amata dalle donne siriane locali: spesso i ribelli takfiri rimangono sbigottiti nel vedere lei e la sua unità femminile lanciarsi al loro inseguimento.

In una intervista al sito intifada palestine il figlio di Kayali (che quando non è operativo al fronte insieme con un altro miliziano funge da guardia del corpo di suo padre), ha denunciato i governi occidentali, che hanno sempre dichiarato di fornire “aiuti umanitari non letali” ai gruppi ribelli (tra cui occhiali notturni, apparecchiature per le telecomunicazioni e dispositivi GPS):  “Queste attrezzature sono definite falsamente umanitarie e nei fatti costituiscono un aiuto letale, in quanto queste apparecchiature facilitano da un lato le uccisioni tramite cecchini notturni, e dall’altro facilitano movimenti di truppe. Per noi non è un gran problema perché siamo in grado di capire dove sono i combattenti di al Nursa, ed essi tendono a non combattere di notte. Questo non per un editto religioso di qualche tipo. La ragione è che alla fine della giornata sono troppo paranoici e devastati dalla grande quantità di Captagon e di droghe ancora più forti che assumono per poter combattere. A molti, se non alla maggior parte, degli jihadisti sostenuti dai paesi del Golfo vengono dati sacchi di pillole per migliorare il loro coraggio sul campo di battaglia”. Il figlio di Kayali prosegue: “All’alba di ogni giorno i jihadisti prendono farmaci, tra cui a volte grandi dosi di Captagon e altri farmaci ampiamente disponibili tra i miliziani, inclusi alcune potenti sostanze note localmente come “Baltcon”, “Afoun”, “Zolm”, oppio, eroina, cocaina, hashish. Le principali rotte della droga nelle zone di battaglia siriane partono da Pakistan, Afghanistan e Libano, mentre rotte minori sono quelle dalla Turchia, Iraq e Giordania. Dalla valle della Bekaa nel Libano partono grandi quantità di pillole Captagon con destinazione verso il Golfo e ora in Siria. Gli jihadisti imbottiti di droga apparentemente si sentono invincibili e non temono la morte. Molti sono infatti sono combattenti feroci e impavidi durante il giorno, come molti media hanno riferito, ma di sera, quando gli effetti del farmaco svaniscono, i combattenti sono spossati e talvolta li troviamo addormentati nella stessa postazione in cui avevano combattuto.. Secondo un’altra fonte del PFLI gli jihadisti stranieri muoiono in gran numero perché ignorano come muoversi sul campo di battaglia. Il loro numero medio di morti in ogni scontro a fuoco nel corso degli ultimi anni è stimata essere circa cinque volte il numero di vittime di Hezbollah, tre volte il numero di combattenti PFLI e il doppio delle vittime dell’esercito siriano regolare.

aaadfsUn martire della patria e della Resistenza Siriana: Aamer Mahmoud Taha ucciso mentre combatte i “ribelli” nella zona di Jabal Arbaeen di Idlib.

    

 

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