Bolsonaro ed il fascismo

Risultati immagini per mst reforma agraria populardi Atilio A. Borón

È diventato un luogo comune caratterizzare il nuovo governo di Jair Bolsonaro come “fascista”. Questo, a mio avviso, costituisce un grave errore. Il fascismo non discende dalle caratteristiche di un leader politico, per quanto nei test di personalità o negli atteggiamenti della vita quotidiana, come nel caso di Bolsonaro – emerga una schiacciante predominanza di atteggiamenti reazionari, bigotti, sessisti, xenofobi e razzisti. È quello che i sociologi e gli psicologi sociali americani misuravano, dopo la seconda guerra mondiale, con la famosa “scala F”, in cui l’EFFE si riferiva al fascismo. In quel tempo si pensava, e alcuni ancora nutrono questa convinzione, che il fascismo fosse la cristallizzazione sul piano dello Stato e della vita politica di personalità squilibrate, portatrici di gravi psicopatologie, che per motivi circostanziali erano arrivate al potere. L’obiettivo politico di questa operazione era evidente: per il pensiero convenzionale e delle scienze sociali del tempo, la catastrofe del fascismo e del nazismo era da attribuire al ruolo di alcuni individui: la paranoia di Hitler o le manie di grandezza di Mussolini. Il sistema, cioè il capitalismo e le sue contraddizioni, era innocente e non aveva alcuna responsabilità rispetto all’olocausto della seconda guerra mondiale.

Superata questa interpretazione, ci sono coloro che insistono sul fatto che la presenza di movimenti o anche di partiti politici con chiare tendenze fasciste, inevitabilmente contrassegneranno in maniera inconfondibile il governo di Bolsonaro.

Si tratta di un altro errore: non sono questi a definire la natura profonda di una forma di stato come il fascismo. Nel primo Peronismo degli anni quaranta e nel Varguismo brasiliano, diverse organizzazioni e figure fasciste o fascistoidi brulicavano negli ambienti vicini al potere. Ma né il Peronismo né il Varguismo costruirono uno stato fascista. Il Peronismo classico è stato, usando la concettualizzazione gramsciana, un caso di “cesarismo progressivo”, che gli osservatori hanno potuto caratterizzare come fascista solo a causa della presenza di gruppi e persone tributari di quella ideologia. Loro erano davvero fascisti ma il governo di Perón no. Per parlare dei nostri tempi: Donald Trump è un fascista, se si guarda alla sua personalità, ma il governo degli Stati Uniti non lo è.

Dal punto di vista del materialismo storico, il fascismo non lo definiscono né le personalità né i gruppi. È una forma eccezionale dello Stato capitalista, con caratteristiche assolutamente uniche e irripetibili. Questa emerse quando il suo modo ideale di dominio, la democrazia borghese, affrontò una crisi molto grave, nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Per questo, diciamo che è una “categoria storica” ​​e che non sarà più in grado di riprodursi, perché le condizioni che hanno reso possibile la sua comparsa sono scomparse per sempre.

Quali furono le condizioni speciali che segnarono ciò che potremmo chiamare “l’era del fascismo”, assenti nella fase attuale?

In primo luogo, il fascismo era la formula politica con cui il blocco egemonico dominante di una borghesia nazionale risolse per via reazionaria e dispotica una crisi di egemonia causata dalla mobilitazione insurrezionale senza precedenti delle classi subalterne e dall’ampliamento del dissenso all’interno del blocco dominante, alla fine della prima guerra mondiale. Come se non bastasse, le borghesie in Germania e Italia lottavano per ottenere un posto nella divisione coloniale del mondo e contro i poteri dominanti sulla scena internazionale, in particolare il Regno Unito e la Francia. Il risultato fu la seconda guerra mondiale.

Oggi, nell’era della transnazionalizzazione e finanziarizzazione del capitale e col predominio di mega-società che operano su scala globale, la borghesia nazionale giace ormai nel cimitero delle vecchie classi dominanti. Il suo posto lo occupa adesso una borghesia imperiale e multinazionale, che ha subordinato, fagocitandoli, i suoi omologhi nazionali (compresi quelli dei paesi del capitalismo sviluppato) e agisce sulla scena mondiale attraverso una centralina che si riunisce periodicamente a Davos, per disegnare strategie globali di accumulazione e dominio politico. E, senza borghesia nazionale, non esiste un regime fascista, a causa dell’assenza del suo principale protagonista.

Secondo, i regimi fascisti furono radicalmente statalisti. Non solo non credevano nelle politiche liberali, ma erano apertamente antagonisti nei loro confronti. La loro politica economica era interventista, promuoveva il ruolo delle società pubbliche, proteggeva quelle del settore privato nazionale e stabiliva un rigido protezionismo nel commercio estero. Inoltre, la riorganizzazione dell’apparato statale, necessaria ad affrontare le minacce di insurrezione popolare e di discordia tra i “vertici”, proiettò ad un posto di rilievo nello Stato la Polizia politica, i servizi di intelligence e gli uffici della propaganda.

È impossibile per Bolsonaro tentare qualcosa del genere, data l’attuale struttura e complessità dello stato brasiliano, specialmente quando la sua politica economica sarà affidata a un “Chicago boy”, che ha proclamato ai quattro venti la sua intenzione di liberalizzare la vita economica.

In terzo luogo, i fascismi europei erano regimi di organizzazione e mobilitazione di massa, in particolare degli strati intermedi. Mentre perseguitavano e distruggevano le organizzazioni sindacali del proletariato, inquadravano vasti movimenti delle fasce medie minacciate e, nel caso italiano, portavano questi sforzi tra i lavoratori, dando origine a un sindacalismo verticale e subordinato ai mandati del governo. Vale a dire, la vita sociale era “corporativizzata” e resa obbediente verso i “vertici”. Bolsonaro, al contrario, promuoverà la de-politicizzazione – purtroppo avviata quando il governo di Lula cadde nella trappola tecnocratica e arrivò a credere che il “rumore” della politica spaventasse i mercati – e approfondirà la disintegrazione e atomizzazione della società brasiliana, la privatizzazione della vita pubblica, il ritorno delle donne e degli uomini a casa loro, ai loro templi e al loro lavoro, per adempiere ai loro ruoli tradizionali. Tutto questo è agli antipodi del fascismo.

Quarto, i fascismi furono Stati rabbiosamente nazionalisti. Lottavano per ridefinire a loro favore la “suddivisione del mondo”, il che li mise commercialmente e militarmente contro i poteri dominanti. Il nazionalismo di Bolsonaro, d’altra parte, è retorica inconsistente, pura logorrea senza conseguenze pratiche. Il suo “progetto nazionale” è quello di trasformare il Brasile nel  lacché preferito di Washington in America Latina e nei Caraibi, scalzando la Colombia dal ruolo infamante di “Israele sudamericano”. Lungi dall’essere riaffermazione degli interessi brasiliani, il bolsonarismo definisce il tentativo, speriamo infruttuoso, di sottomettere totalmente e ricolonizzare il Brasile sotto l’egida degli Stati Uniti.

Ma una volta chiarito tutto ciò, significa che il regime di Bolsonaro si asterrà dall’applicare le brutali politiche repressive che hanno caratterizzato i fascismi europei? Assolutamente no! Lo abbiamo detto prima, ai tempi delle genocide dittature “civico-militari”: questi regimi possono essere – eccettuando il caso della Shoa eseguita da Hitler – ancora più atroci dei fascismi europei. I trentamila prigionieri scomparsi in Argentina e la generalizzazione delle forme esecrabili di tortura ed esecuzione di prigionieri illustrano la perversa malvagità che questi regimi possono acquisire. Il fenomenale tasso di detenzione su centomila abitanti che ha caratterizzato la dittatura uruguaiana non ha eguali in tutto il mondo. Gramsci sopravvisse undici anni nelle segrete del fascismo italiano, mentre in Argentina sarebbe stato gettato in mare come tanti altri giorni dopo il suo arresto. Pertanto, la riluttanza a descrivere il governo di Bolsonaro come fascista non intende addolcire l’immagine di un personaggio emerso dalle fogne della politica brasiliana o di un governo che sarà fonte di enormi sofferenze per il popolo brasiliano e per tutta l’America Latina. Sarà un regime simile alle più sanguinose dittature militari conosciute in passato, ma non sarà fascista. Perseguiterà, imprigionerà e ucciderà senza pietà coloro che resisteranno ai suoi abusi. Le libertà saranno compresse e la cultura sottoposta a persecuzioni senza precedenti, allo scopo di sradicare “l’ideologia di genere” e qualsiasi variante del pensiero critico. Qualsiasi persona o organizzazione che gli si opponga, sarà il bersaglio del suo odio e della sua rabbia. I Senza Terra, i Senza Tetto, i movimenti delle donne, la LGTBI, i sindacati dei lavoratori, i movimenti studenteschi, le organizzazioni delle favelas, tutti saranno oggetto della sua frenesia repressiva.

Eppure, Bolsonaro non ha tutte le carte favorevoli in mano e incontrerà molte resistenze, anche se in maniera spontanea e disorganizzata all’inizio.

Le contraddizioni sono molte e gravi: l’imprenditoria – la “borghesia autoctona”, se non nazionale, come diceva il Che – si oppone all’apertura economica, perché teme di essere fatta a pezzi dalla concorrenza cinese; i militari in servizio non vogliono nemmeno saperne di un’incursione nelle terre venezuelane, né di offrire il loro sangue per un’invasione decisa da Donald Trump e basata sugli interessi nazionali degli Stati Uniti; le forze popolari, anche nella loro attuale dispersione, non si lasceranno facilmente soggiogare. Inoltre, cominciano ad apparire gravi accuse di corruzione contro questo falso “outsider” della politica, che è stato per ventotto anni deputato al Congresso brasiliano, in quanto testimone o partecipe di tutti gli intrallazzi che si sono covati in quegli anni. Pertanto, sarebbe bene ricordare ciò che è accaduto a un altro Torquemada brasiliano: Fernando Collor de Melo, che, come Bolsonaro, arrivò negli anni novanta con il fervore di un crociato della restaurazione morale e finì i suoi giorni da presidente con una fuga precipitosa dal Palazzo del Planalto. Presto potremo sapere che futuro aspetta il nuovo governo, però il pronostico non è molto favorevole e l’instabilità e le turbolenze saranno all’ordine del giorno in Brasile. Bisognerà essere pronti, perché la dinamica politica può assumere una velocità fulminante e il campo popolare deve poter reagire tempestivamente.

Perciò, l’obiettivo di queste riflessioni non era perdere tempo per inseguire distinzioni accademiche sulle diverse forme di dominio dispotico possibili nel capitalismo, bensì contribuire a una precisa caratterizzazione del nemico, senza la quale non si potrà mai combattere con successo. Ed è importantissimo sconfiggerlo, prima che faccia troppi danni.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione a cura di Marco Nieli].

Imperialismo y contradicciones

por Néstor Francia 

Análisis de Entorno Situacional Político

Viernes 16 de junio de 2017

Imperialismo y contradicciones

Según las ideas del gran filósofo chino Lao-Tse, que es uno de los cimientos del budismo zen, el concepto del Tao, principio basal de la naturaleza, se fundamenta en que la única constante en el universo es el cambio y que debemos aceptar este hecho y estar en armonía con ello. El cambio es el flujo constante que se produce por la acción combinada de dos elementos complementarios y contradictorios, por ejemplo el ying y el yang, lo masculino y lo femenino, el ser y el no-ser, lo alto y lo bajo. Es decir, es una filosofía dialéctica, que es básicamente la misma que está presente en el materialismo dialéctico marxista.

¿A qué viene esta digresión filosófica? A que se trata de principios naturales, reales, que pueden ser aplicados en cualquier campo de la vida, por supuesto también en la política. Cuando vemos individualidades y grupos políticos en Venezuela darle la espalda al Gobierno Bolivariano y a la actual dirección revolucionaria venezolana, nos gustaría regalarles la hermosa obra maestra de Lao-Tse, el Tao te King, o el célebre texto Sobre la contradicción, de Mao Tse Tung.

La sociedad está siempre llena de contradicciones, es inevitable, ya que todo es así. Es precisamente esta lucha de contrarios lo que genera el cambio permanente, siempre va a existir, con distinto carácter, pero siempre allí. Cuando nosotros asumimos la crítica del Gobierno o del chavismo en general, lo hacemos con plena conciencia de la existencia de tales múltiples contradicciones, por lo que nos está vedado el pensamiento simplista o reduccionista, que es el origen del fanatismo.

Paradójicamente, por esas mismas razones nuestro apoyo al Gobierno Bolivariano se mantiene incólume. Porque en el juego mundial de las contradicciones, en esta guerra mundial entre el imperialismo y sus aliados, por un lado, y los pueblos y naciones soberanas, por el otro, Venezuela, la Revolución Bolivariana, el Gobierno de Nicolás Maduro y el chavismo representan uno de los frentes antiimperialistas principales de este momento.

En tal situación histórica, hay quienes prefieren ver los árboles que el bosque, porque privilegian sus ansias de protagonismo, y sus proyectos personales y grupales, por encima de los intereses de la Patria, que son los de la Humanidad sometida por el Imperio más destructivo de la Historia ¿Qué quieren? ¿Qué se apodere de Venezuela un gobierno que se alinee con los intereses imperiales, como los de Argentina, Perú, Chile, Paraguay, Colombia o Brasil? Porque en la actual circunstancia, esa es la alternativa ¿Acaso creen que es una opción real una izquierda tercerista, que pueda contonearse patéticamente en este cuadro de guerra mundial, como pretende hacerlo sin éxito el Frente Amplio de Uruguay?

Nosotros hemos tenido, tenemos y tendremos distintas críticas a los gobiernos chavistas y a la dirigencia del chavismo, es una manera de ser leales, puesto que uno de los más graves problemas de estos es su dificultad para asumir realmente los errores, que es el primer paso para corregirlos, y la costumbre de escuchar las críticas pero no tomarlas en cuenta. Eso no nos gusta, por supuesto. Pero cuando ponemos en la balanza las distintas contradicciones, no tenemos dudas en cuanto de qué lado estamos. Como decía el banquero aquel, aquí estamos y aquí nos quedamos.

Por cierto, este Análisis de hoy lo inspiran los grandes enemigos de nuestra Patria ¿No se dan cuenta aquellos que abandonan el barco por algún disgusto con el Capitán, que no es para nada casual la furia del imperialismo y de la burguesía mundial contra Maduro y nuestra Revolución? ¿Acaso están ciegos que no ven las claras señales de la realidad? Veamos.

En este momento, cuando se acerca una nueva reunión de cancilleres de la OEA (dentro de tres días en Cancún), en la que se debatirá una vez más el tema de Venezuela, arrecia la agresión imperialista. El vicepresidente de Estados Unidos, Mike Pence, instó ayer al resto de los países del continente a condenar “el abuso de poder” en Venezuela y a mostrar al Gobierno venezolano que la “libertad es el único camino verdadero para la prosperidad”: “Todos debemos levantar nuestra voz para denunciar el abuso de poder en Venezuela y debemos hacerlo ahora… Venezuela es víctima de un gobierno autoritario, un gobierno que está haciendo sufrir al pueblo venezolano”. Esto lo dijo Pence durante un aquelarre de la burguesía continental, la “Conferencia sobre Seguridad y Prosperidad en Centroamérica” que reúne en Miami a gobiernos y empresarios de los países de la “Alianza de la Prosperidad”, más México. Quien tenga ojos que vea, quien tenga oídos que oiga.

El propio presidente del gobierno extremista de Estados Unidos, Donald Trump, se refirió ayer a la “importancia” de la 47 Asamblea General de la OEA en Cancún y aseveró que ha instruido a su secretario de Estado, Rex Tillerson, a promover el debate sobre Venezuela en ese foro. Según una nota del portavoz de la Casa Blanca, Sean Spicer, “El presidente sigue enormemente preocupado sobre la situación que enfrenta el pueblo de Venezuela y ha instruido al secretario Tillerson a colaborar con los países de la región para que avancen las discusiones sobre Venezuela en este importante encuentro… Estados Unidos está con el pueblo de Venezuela durante estos tiempos tristes y turbulentos para su país”.

Entretanto, la Embajada de Canadá en Venezuela expresó su “preocupación” por el supuesto “uso excesivo de la fuerza” por parte del Gobierno venezolano. En un verdadero abuso injerencista de esta embajada, que representa al principal socio del imperialismo en el continente, desde allí se tuiteó que “Canadá continúa alarmado y triste por la muerte de ciudadanos venezolanos en el contexto de protestas” y también que “reprimir protestas con uso excesivo de la fuerza e invasión de hogares solo causa más conflicto y no es una solución a la crisis”. Para fingir ecuanimidad y tratar de morigerar su pretensión injerencista, la embajada añadió: “los ciudadanos también tienen la obligación de protestar pacíficamente y no usar la violencia”.

En fin, no deja de llamar la atención que todo el que se convierte en disidente del chavismo, pierde de inmediato la memoria y se olvida de que el imperialismo existe y de que está dirigiendo la guerra contra Venezuela. Ya no nombra a ese enemigo, acaso para borrarlo de su mente, en actitud vergonzante.

La PJPP contra los bombardeos de EEUU en Siria

Señor, Bashar Al-Assad
Presidente de la República Arabe Siría Damasco – Siria
Ginebra, 7 de abril del 2017
Comunicado

Los jóvenes de la PLATAFORMA JUVENIL PARA EL PODER POPULAR (PJPP) conformada los días 10 y 11 de junio del año 2015, en la ciudad de Bruselas (Bélgica), REPUDIAMOS Y CONDENAMOS el bombardeo perpetuado por los Estados Unidos de Norte América, la madrugada del 7 de abril del 2017, contra la Republica Árabe Siria.

Repudiamos al igual todos los ataques permanentes llevados por la OTAN, quien, dirigida y financiada por el país mencionado, por diversos gobiernos árabes y europeos, ha causado ya 470’000 muertos. En esta guerra sucia debutada en 2011, el pueblo sirio en compañía de su gobierno legitimo ha hecho pasos de gigantes. Ha sabido vencer al enemigo e incluso, en los momentos más terribles, ha sabido darle esperanza a todo un pueblo que pide a los cuatro vientos una paz total. Es de recordar que los problemas internos de los países han de resolverse de manera autónoma, sin injerencia alguna y de la manera más digna posible. Tristemente, gobiernos como el francés quien dice ser socialista cuando es más fascista que progresista, gobiernos como el japonés quien parece haber olvidado que un día fueron ellos los bombardeados por los EE. UU (y de qué manera), gobiernos como el de Israel quien olvida que fue víctima del holocausto judío o gobiernos como el turco quien debería dejar de prestar su pueblo como carne de cañón en una guerra que no le incumbe, tienen intereses económicos e individualistas donde el valor de la vida se eleva tan solo unos cuantos barriles de petróleo. Ello ha llevado a estos gobiernos, con sus bombas asesinas, a quitarle la vida miles de niñas y niños sirios a quienes les han matado la esperanza de crecer y construir un mundo mejor que el que nos ofrece el sistema agotado, que hoy en crisis bañar de sangre el mundo entero.

¿Cuál sería la respuesta del gobierno de los EE. UU o cualquiera de los países mencionados, si por sus problemas internos, tuviera una intervención militar y asesina por cualquier otro país de mundo? ¿De qué democracia hablan los EE. UU y la OTAN si consideran democrático a un país como Arabia Saudita que le niega los derechos fundamentales a las mujeres? Así pues, apoyamos los esfuerzos de paz y dialogo realizados por el Presidente Bashar Al Assad y su gobierno. Respaldamos totalmente la resistencia del pueblo heroico sirio quien ha tenido que soportar todos los embates de todos aquellos gobiernos y emporios que buscan quedarse con territorios ajenos de la región y así crear entonces el nuevo Estado de Israel. Aprovechamos también la presente para condenar los atentados perpetuados en San Petersburgo (Rusia) el 3 de abril de este mismo año al igual que la injerencia que llevan los EE.UU contra la República Bolivariana de Venezuela, la cantidad de asesinatos de que se han venido presentando contra los líderes sociales en Colombia y todo tipo de actos terroristas y neoliberales que se estén llevando hoy por hoy en cualquier rincón del mundo.

Plataforma Juvenil Para el Poder Popular América Latina – Europa – África Y otras organizaciones amigas

Venezuela: dalla fuga dei cervelli all’asilo politico

venezueladi Alfredo A. Torrealba – http://www.aporrea.org

Qui di seguito si presenta un breve riassunto composto di dieci idee generali concernenti l’evoluzione del significato di “Fuga dei Cervelli” in Venezuela. Il documento è stato sviluppato in questo modo, poiché negli ultimi anni “l’informazione tascabile”, ovvero succinta, è diventata più popolare “di quella approfondita”.

  1. Originariamente il termine “Fuga dei Cervelli” sorse in Messico agli inizi del XX secolo. In quell’occasione si faceva riferimento al fatto che la manodopera qualificata delle istituzioni dell’America Latina lasciava il posto di lavoro per farsi assumere nelle ditte private. Alcuni politici e pensatori messicani si resero conto di questa tendenza, interpretandola come un allontanamento dettato da fattori quali i bassi salari o dai benefici se confrontati con quelli che offriva il settore privato. Quest’ultimo, infatti, perseguiva degli obiettivi di produzione e profitto ben precisi per sentire l’esigenza di annoverare tra le sue fila a figure di professionisti che svolgessero le diverse mansioni negli ambiti industriale, commerciale tecnologico e amministrativo.
  2. Il termine “Fuga dei Cervelli” giunse in Venezuela (fino a dove si è potuto appurare) agli inizi del decennio degli anni ’20 dello scorso secolo quando un gruppo di politici e pensatori fece notare la loro inquietudine sui giornali e i libri dell’epoca, riguardante la scarsità di manodopera giovane e qualificata nella regione centrale del paese. La maggior parte di questi giovani emigrava a Caracas, la capitale del paese, alla ricerca di migliori opportunità come conseguenza dei negoziati che si erano aperti con l’avvento del “boom” petrolifero. Inoltre in quegli anni e allo stesso modo che in Messico, la “Fuga dei Cervelli” colpiva ampi settori dell’amministrazione pubblica, ma con la differenza che questa non convergeva necessariamente solo verso il settore privato, ma vedeva coinvolto anche l’esercito venezuelano.
  3. Dal 1967 la “Fuga dei Cervelli” fu riscoperta dalla comunità accademica nordamericana come un vero e proprio problema, definendola “Brain drain”. Da allora questo tema è diventato d’attualità negli scenari politici e nei mezzi di comunicazione di tutta l’America Latina, poiché viene descritto come un processo d’emigrazione che coinvolge professionisti e scienziati con titolo universitario che si sposta verso altri paesi, principalmente spinti dalla mancanza di opportunità di sviluppo nei settori della ricerca, per motivi economici o per conflitti politici nel loro paese di origine e che, in genere, si caratterizza come senza ritorno. Nonostante questo processo è maggiormente presente nei paesi in via di sviluppo, in molti casi si manifesta nei paesi industrialmente sviluppati, dovuto a fattori come differenze salariali o impositive.
  4. Dal 1971 la “Fuga dei Cervelli” in Venezuela si associa con l’idea che sempre con maggiore frequenza gli studenti venezuelani e i professionisti neolaureati se ne vanno altrove per cercare un futuro migliore. Questa tendenza si è mantenuta fino agli inizi degli anni ottanta quando la parità di cambio tra bolívar e dollaro rese possibile a un’ampia fascia di venezuelani di spostarsi principalmente verso l’America del Nord e l’Europa. Tuttavia anche se molti venezuelani decisero di andare a un altro paese con i propri mezzi, in questo periodo la principale rampa di lancio erano le istituzioni del governo venezuelano. L’espansione delle ambasciate e dei consolati, lo sviluppo di PDVSA e di alcune banche nazionali rese possibile a molte famiglie venezuelane di stabilirsi all’estero con un certo successo, fino a che nel 1983 sopraggiunse la svalutazione del bolívar, segnando la fine dell’era del “Venezuela Saudita”.
  5. Dal 1987 la “Fuga dei Cervelli” diventa una questione di classe. L’elevato costo dei biglietti di viaggio, il soggiorno all’estero, così come le nuove imposizioni politiche contro gli emigranti adottate dai governi dell’Europa e dell’America settentrionale, rese difficile alla classe media alta e bassa venezuelana di raggiungere l’obiettivo di uscire o rimanere all’estero. Perciò le famiglie con grandi risorse economiche erano le uniche che potevano finanziare i propri familiari all’estero. Contemporaneamente in quest’epoca in tutta l’America Latina fa presa il paradigma che studiare e vivere all’estero era sinonimo di successo, progresso e qualità della vita.
  6. Dal 1990 fino al 2010 il numero di venezuelani deportati in tutto il mondo è in progressivo aumento. Impossibilitati di provvedere al proprio sostentamento all’estero, sono respinti per diversi motivi: droga, prostituzione (maschile e femminile), furti, evasione fiscale, truffe, irregolarità, così come per aver incappato nel commercio di matrimoni combinati in Europa e in America del Nord, ecc.
  7. Dal 1993 e fino al 2010 un cospicuo numero di venezuelani residenti all’estero per sopravvivere inizia a lavorare nel settore dei servizi, svolgendo lavori a bassa remunerazione. Parrucchieri, spazzini, benzinai, cassieri, venditori, ecc., sono le attività più comuni dei nostri “talenti” per evitare le deportazioni.
  8. Tra il 1998 e il 2001 quasi il 91% dei venezuelani emigrati nel decennio degli anni settanta, ottanta e novanta era tornati in Venezuela perché deportati, per altre ragioni o emigrati in un altro paese. In questo stesso periodo lo Stato venezuelano smette di essere il principale trampolino dei venezuelani. Organizzazioni internazionali, ditte private e università a livello mondiale iniziano a pubblicare su Internet le loro offerte, offrendo o domandando servizi e lavori ai latinoamericani. Condizione che non è stata sprecata da alcuni soggetti delle classi alte, medie o medio basse del Venezuela. In questa maniera, a partire del 2001, sempre più venezuelani cominciano a interessarsi a cercare fortuna all’estero con l’appoggio dei servizi offerti da Internet.
  9. Parallelamente, nel 2003, si avvia una forte emigrazione di venezuelani all’estero per ragioni politiche e con lo sviluppo del mercato dell’asilo e del rifugio politico a livello internazionale. Da quella data alcune “Organizzazioni Non Governative” (ONG) in America Latina, iniziano a offrire i loro servizi per consentire agli emigranti di poter viaggiare agli Stati Uniti o in Europa, in qualità di rifugiati o richiedenti asilo. Ad esempio, gruppi politici avversi al governo venezuelano si avvalsero del Colpo di Stato del 2002 figurando come perseguitati politici al cospetto di alcuni paesi europei e dell’America del Nord. Questi paesi concessero l’asilo politico o lo status di rifugiato a centinaia di venezuelani i quali, a loro volta, percepivano aiuti statali o governativi che oscillavano tra gli 800 e i 5.000 dollari mensili, senza obbligo di lavoro o dichiarazione dei redditi. Con questo meccanismo ne hanno beneficiati anche i loro familiari più stretti. Dato che questo sostentamento si percepiva con la qualifica del “richiedente asilo o rifugiato politico” e grazie alle facilità amministrative del paese che concedeva questi diritti, numerosi venezuelani in alcuni di questi paesi diedero vita a delle ONG con l’obiettivo di aiutare a emigrare ad altri venezuelani come se fossero dei perseguitati politici. Per raggiungere questo scopo, le ONG offrivano svariati servizi: la pubblicazione retribuita di false notizie nella stampa nazionale, dossier politici, false denunce non dichiarate, avvocati, ecc. In questo modo i beneficiati che non avevano mai avuto un percorso politico riuscivano a emigrare e ottenere lo status di richiedente asilo o di rifugiato politico. Questa condizione giuridica gli consentiva se non altro di avere diritto di vivere per otto mesi in uno di questi paesi, percependo un salario minimo e, poi, di ottenere un lavoro, oppure sussistere con quanto offerto da alcune ONG caritative.
  10. Tra il 2010 e il 2013 i dati del CNE annunciavano che circa 45 mila venezuelani erano legalmente registrati nei consolati del Venezuela a livello mondiale. Ciò consentiva loro non solo di esercitare il diritto al voto, ma potevano anche dar prova di essere “legali” in quel paese. Parallelamente, per difetto, gli altri 750 mila venezuelani che vivevano all’estero (la cifra dei venezuelani all’estero non ha mai superato i 900 mila) si trovavano in qualità di turisti o in condizioni d’illegalità nel paese ospitante. Altri si segnalavano come richiedente asilo o rifugiato, con residenza temporanea, sposati, o con un rapporto apolitico nei confronti del governo venezuelano in vista di ottenere una nuova cittadinanza. In questo stesso periodo si calcola che 121 milioni di dollari sono entrati in Venezuela a titolo di rimessa familiare, il che significa che pressappoco 45 mila venezuelani inviavano denaro alle loro famiglie in Venezuela. Una cifra molto di sotto i 21 miliardi di dollari che ogni anno riceve il Messico per le stesse ragioni. Infine nel 2012 l’incremento delle deportazioni di giovani e donne venezuelane per prostituzione raggiunse cifre record in Europa, America Centrale e Sudamerica. In modo particolare in Spagna, dove la prostituzione online dei nostri “talenti” viene denominata “scorts”.

Per finire, la “Fuga dei Cervelli” in Venezuela è una realtà che non dovrebbe destare tanto allarme, giacché giudicando gli indici di deportazioni, inevitabilmente, la stragrande maggioranza dei venezuelani dovrà tornare a casa controvoglia.

 

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Vincenzo Paglione]

 

Il Brasile sotto attacco, ci risiamo

di Manlio Di Stefano

In Brasile la democrazia è sotto attacco. Con un vero e proprio colpo di stato istituzionale, tutte quelle forze politiche che per ben quattro tornate elettorali sono uscite ampiamente sconfitte dal confronto con il Partito dei Lavoratori (PT), vogliono rovesciare un governo legittimo votato da 54 milioni di brasiliani.

L’obiettivo è ovvio, prendere il potere e attuare quelle misure neo-liberiste che tanti danni hanno prodotto durante la cosiddetta «larga noche neoliberal».

La presidente Dilma Rousseff non è coinvolta in nessuna indagine di corruzione ma il processo di impeachment che la riguarda è basato sull’accusa «di aver manipolato i dati sulla situazione economica in Brasile». Accusa che, con il passar del tempo, si è rilevata sempre più debole tanto da spingere il New York Times a parlare di «motivazioni estremamente dubbie» e il The Economist ad affermare che «senza alcuna prova di reato, siamo di fronte a un pretesto per cacciare un presidente».

La situazione in cui si trova Dilma Rousseff è paradossale visto che ben 318 membri su 594 del Congresso brasiliano, non solo si trovano sotto inchiesta per reati finanziari e corruzione ma, dovranno votare sul futuro di un presidente che non ha compiuto alcun reato o scorrettezza finanziaria.

Durante la votazione alla Camera dei Deputati abbiamo ascoltato le motivazioni più assurde per giustificare l’appoggio alla messa in stato di accusa del presidente in carica: dal «volere di Dio» alla «famiglia», passando per «i militari del colpo di stato del 1964».

L’opposizione – screditata e corrotta – vuole tramite questa operazione arrivare alla destituzione di Dilma Rousseff. Sarebbe il secondo caso per il Brasile dopo la destituzione del liberale Fernando Collor nel 1992. Prima di arrivare a compimento di quello che la presidente ha definito senza mezzi termini «colpo di stato», il Senato dovrà approvare la messa in stato di accusa a maggioranza semplice (42 su 81 senatori) a quel punto comincerebbe il processo a Dilma Rousseff che dovrebbe lasciare il suo incarico per 180 giorni con il passaggio del potere a Michel Temer del Partido del Movimento Democratico Brasileno, formazione centrista che ha rotto la sua alleanza di governo con il Partito dei Lavoratori (PT). La destituzione definitiva dovrà essere approvata con il voto di almeno 54 senatori su 81, i due terzi della Camera Alta.

In questo ipotetico scenario, Michel Temer sarebbe nominato nuovo presidente e avrebbe il compito di portare la legislatura a naturale scadenza nel 2018. Sul politico centrista, però, grava un processo di impeachment così l’incarico passerebbe ad Eduardo Cunha (sotto indagine per svariate attività illecite) che avrebbe l’obbligo di convocare nuove elezioni entro 90 giorni.

Secondo voi chi c’è dietro quest’attacco contro la democrazia brasiliana?

Pochi giorni fa il presidente dell’Ecuador Rafael Correa denunciava come in America Latina sia «in corso un nuovo piano Condor».

Il 14 aprile del 2002, dopo il fallimento del colpo di stato in Venezuela contro il presidente democraticamente eletto Hugo Chavez, sancì l’uscita degli Stati Uniti dall’America Latina la quale poté progressivamente spezzare le catene del Fondo Monetario Internazionale. Poco dopo, nel 2003, gli USA invasero l’Iraq.

E oggi cosa sta succedendo? Presa coscienza del fallimento su tutta la linea in Medio Oriente, Washington tenta nuovamente di ritornare in America Latina con tutti i mezzi illeciti che conosce.

Le tecniche del passato – colpi di stato militari – non possono essere più utilizzate ma Washington trova sempre nuove vie: “inchieste giornalistiche”, impeachment creati ad arte e guerre economiche costanti.

Dal futuro del Brasile dipende il percorso d’integrazione libero ed indipendente dell’America Latina e, di conseguenza, la sorte delle istituzioni dei BRICS.

Tutti i democratici del mondo, quelli veri, oggi dovrebbero stringersi intorno a Dilma Rousseff e al suo partito.

PS: ecco i miei impegni per questo weekend… in movimento
VEN. 22.04 – ORE 18:00 – MILANO: Aperitivo di finanziamento e raccolta firme del M5S Milano per Gianluca Corrado sindaco con Luigi Di Maio. Indirizzo: “Ama.Mi”, Corso Sempione 7, Milano.
SAB. 23.04 – ORE 15:30 – GENOVA: Agorà pubblica su sicurezza e immigrazione. Indirizzo: Piazza Banchi, Genova
DOM. 24.04 – ORE 16:00 – TORINO: Presentazione del programma “Integrazione ed Immigrazione” del M5S Torino per Chiara Appendino sindaco. Indirizzo: “Anatra Zoppa”, via Courmayeur 5, Torino.
DOM. 24.04 – ORE 20:30 – BOLOGNA: Raccolta firme del M5S Bologna per Massimo Bugani sindaco. Indirizzo: “Santo Bevitore”, via Galliera 42, Bologna.
Tutti invitati, non mancate!

Prioridades

Luis Britto Garcíapor Luis Britto García

1

Sigue la crisis mundial del capitalismo derruyendo economías en todo el planeta, continúa el dumping de sobreoferta que abatió los precios del barril de petróleo venezolano de $96,14 en el primer trimestre de 2014 a $22,83 para comienzos de febrero de 2016. Sin embargo, el oro negro mueve al mundo; el jueves 18 de febrero la cesta Opep repuntó hasta $29,9 por barril. Los precios de la energía fósil subirán; mientras tanto, debemos conservar un poder político que a su vez conserve para los venezolanos la industria de los hidrocarburos.

2

Las importaciones fantasmas por empresas de maletín, el acaparamiento y los injustificados sobreprecios de alimentos y productos básicos provocaron la escasez que a su vez indujo a abstenerse de votar a una porción mayoritaria del electorado que en otras consultas se pronunció por el bolivarianismo. Ya sabemos los resultados de entregar al adversario capitalista las llaves del marcapasos alimenticio. El retorno de esos votos depende de que el Estado socialista asuma de manera pronta, directa y eficaz la importación y distribución de bienes de primera necesidad, de que se apliquen en forma efectiva controles de precios y se destruyan las cadenas de intermediarios ilegítimos que impiden que el pueblo se beneficie de los cuantiosos subsidios que el gobierno le acuerda.

3

La inseguridad ha escalado de problema penal a comunicacional, económico y estratégico de primera magnitud. Una continuada infiltración paramilitar agrava el ataque continuado contra la ciudadanía con ofensivas de desestabilización terrorista en lo político, redes de contrabando de extracción en lo económico y aparatos de vulneración de las fronteras en lo militar.

4

La transferencia criminal del ingreso petrolero a mafias importadoras que nada importaron; el desangramiento por el contrabando de extracción, la proliferación delictiva se han hecho posibles por complicidades de las autoridades que han de ser implacablemente denunciadas, investigadas y sancionadas. Sólo la sanción inflexible puede evitar que el delito se convierta en reincidencia, la convivencia en anarquía y la crisis en catástrofe.

5

Es tedioso pero a veces indispensable repetir lo obvio: estamos en emergencia, una emergencia a la vez climatológica, económica, social, política, comunicacional, cultural, internacional y estratégica. Los desafíos de tantos y tan difíciles frentes no se podrán enfrentar sin limpiar la casa, clarificar la ideología y definir el rumbo. El destino nos ha conferido innumerables dones: ahora nos toca demostrar que los merecemos. Todo lo que dependía del subsidio tenderá a desaparecer o dificultarse. Sólo permanecerá lo eficaz, lo claro, lo firme. La prueba barrerá con todo lo irrelevante.

Mentre l’aquila va a caccia di mosche, la crisi aumenta

venezuela

di Aram Aharonian* – rebelion.org

Il Venezuela è sommerso da una crisi ostinata e il sistema politico è bloccato, voltando le spalle alla stessa, la quale continua ad aumentare senza trovare risposte. Nel frattempo il presidente Nicolás Maduro è occupato a cacciare mosche nella sua ininterrotta guerra dei microfoni, quando invece la gente è lì ad aspettare che si trovino soluzioni alla scarsità di cibo, medicinali, ecc., all’inflazione, all’insicurezza. (Alcuni sostengono che la frase sia di Seneca, altri invece di Platone, ma chi l’ha resa popolare è stato Hugo Chávez: “L’aquila non va a caccia di mosche”).

C’è chi sostiene che esiste, di fatto, una certa forma di coabitazione nel paese, ma la realtà è che le fazioni che si contendono la guida della società, quella del governo e quella dell’opposizione, sembrano mancare di capacità – o interesse- per giungere a un accordo. Soprattutto quando l’autoproclamata Mesa de la Unidad Democrática (MUD), che raggruppa alla variopinta opposizione, ribadisce la sua promessa di espellere al presidente Nicolás Maduro dalla presidenza prima della metà di quest’anno.

I settori accademici di destra sono del parere che pian piano si sta costruendo un consenso il cui scenario più probabile e favorevole per cominciare a superare la crisi e aprire una transizione democratica deve passare attraverso la rinuncia di Maduro. Dello stesso parere è il segretario generale della MUD, Chúo Torrealba, il quale ha indicato che il primo passo è che il mandatario si metta da parte e consenta l’esecuzione di “un’uscita pacifica, costituzionale, elettorale, democratica e concordata dalla crisi”. Ha aggiunto che “Bisogna consentire che il Venezuela abbia un nuovo governo che inspiri fiducia al mondo e che possegga potere di convocazione sul piano interno”.

E il governo segue paralizzato, erratico, inoperoso (nonostante gli sforzi del vicepresidente dell’Esecutivo – Aristóbulo Istúriz- aperto al dialogo), diluito in incontri che convocano altri incontri e annuncia i prossimi annunci che mai arrivano, in balia ai canti di sirena della via capitalista e a soluzioni neoliberali, ma avviluppato nel recente ricordo della via al socialismo indicata da Hugo Chávez. Non solo sembra erratico, ma appare anche vuoto d’ideologia nello scontro con la MUD e la maggioranza oppositrice dell’Assemblea Nazionale.

La sociologa Maryclen Stelling ha segnalato che in questa congiuntura si sta potenziando la logica bellica della politica costruita intorno all’amico-nemico e fondata sulla dicotomia verità assoluta – errore assoluto. La dinamica del confronto tra i poteri, basata sulla concezione bellica della politica, danneggia la convivenza, il modo in cui affrontare la crisi multidimensionale che soffre il paese e, inoltre, le eventuali soluzioni pacifiche che dovrebbero essere sottoscritte in un clima di dissenso democratico.

Si tratta di stabilire i termini per una coabitazione di cui non sono abituati e sul come organizzarla nelle attuali circostanze, dove non sono accettate le idealizzazioni di approssimazioni consensuali. Si tratta di una convivenza fattibile e realista all’interno del confronto permanente che ha caratterizzato gli ultimi tre lustri, la quale si definirà quando si verrà a sapere a quale dei settori corrisponde l’egemonia. Non esistono spazi per un governo congiunto e men che meno per un’agenda unica.

La coabitazione sembra impossibile quando persiste la crisi economica e – parallelamente- la reticenza governativa d’introdurre dei cambi nella macroeconomia. Nel frattempo l’opposizione pubblicizza come irrevocabile la decisione di espellere a Maduro nei primi sei mesi dell’anno, un’iniziativa che difficilmente si potrà realizzare mediante l’impiego di mezzi legali.

Istúriz ha indicato che la guerra economica si fonda sull’attacco alla moneta – cappeggiato dal sito web, Dolar Today-, la distribuzione del cibo che è a carico dei privati e la caduta violenta del prezzo del petrolio, originata da fattori geopolitici che cercano di minare l’economia delle nazioni che difendono la propria sovranità.

“Dobbiamo fare un salto da un modello economico basato sulla rendita a un modello economico produttivo, abbiamo dei problemi perché non possediamo più una valuta come una volta, dobbiamo ragionare sull’importazione, dobbiamo unirci, da soli non ce la faremo, abbiamo bisogno della collaborazione di tutti i settori”, ha segnalato il vicepresidente. Tuttavia ha riconosciuto che il governo nazionale “non è stato capace” di risolvere problemi come le code, la scarsità di cibo e l’inflazione.

Julio Escalona ha avvertito che anche se in certa qual misura il petrolio è stato statalizzato, i principali profitti sono nelle tasche del capitale transnazionale; l’incremento delle entrate produce importazioni che distruggono la produzione interna, svalutano il bolívar, dollarizzano l’economia venezuelana, danneggiano la bilancia dei pagamenti, generano esportazione di capitali, indebitamento, inflazione. Un feticcio moltiplicatore dei conti bancari all’estero che rende più forte il dominio del capitale nella misura in cui siamo più dipendenti dal petrolio e gli imprenditori negoziano per continuare ad accumulare maggiori quantità di dollari.

Nonostante si sia aperto il dialogo con il settore produttivo, non ci sono progressi sul tavolo del dialogo politico. L’opposizione non dà segnali di avanzare nelle proposte, al di là di sbarazzarsi di Maduro e per quanto possibile (l’idea di un colpo di stato continua a ruotare intorno alle teste di non pochi, anche se bisogna avere l’appoggio delle forze armate) salvaguardando l’immagine della democrazia borghese: mediante una rinuncia o tramite un referendum revocatorio che non sembra nemmeno molto facile da realizzare.

Dall’egemonia alla “crisi umanitaria”

Antonio Gramsci aveva stabilito una differenziazione tra dominio – coercitivo- ed egemonia, di carattere culturale, ideologico, etico e spirituale. Mentre l’egoismo rappresenti il motore della società e il popolo conservi il culto dello Stato e le forme di coercizione statale siano dominanti, l’egemonia la possiede la borghesia, osserva il politologo Leopoldo Puchi.

La crisi avanza e non ci sono risposte. Le soluzioni acquisiscono carattere d’emergenza e all’interno della democrazia borghese il macchinario è del tutto bloccato.

Una situazione per nulla normale diventa normale, il linguaggio bellico diventa naturale. La nuova maggioranza nell’Assemblea nazionale disegna una strategia fondata sul confronto dei poteri e, più che un’apertura al dialogo, il parlamento si consolida come spazio di confronto e forza d’urto.

Quella stessa Assemblea che ha rifiutato il decreto d’emergenza economica del governo ha dichiarato l’esistenza di una “crisi umanitaria”. E’ la stessa cosa? Assolutamente no. Non si tratta di un problema semantico. Un anno fa il generale statunitense John Kelly, capo del Comando Sud, dichiarava ai quattro venti che quotidianamente pregava per “il popolo venezuelano” e si faceva garante che gli Sati Uniti sarebbero intervenuti solo se si dichiarasse una “emergenza umanitaria”. Per lo meno Kelly non è più al Comando Sud, ma altri lo stavano aiutando in quell’affermazione per avallare l’ingerenza esterna.

L’offensiva dell’opposizione continua a essere capeggiata dai mass media. L’editoriale del quotidiano EL Nacional, “¡Good Bye, Nicolás!”, è una chiamata al golpe. L’anticastrista, Fausto Masó, sulle pagine dello stesso giornale indicava che “Il governo è aiutato dall’inerzia e dalla mancanza di decisione dei suoi avversari, i quali non vanno oltre l’unità elettorale dello scorso dicembre, verso quella che dovrebbe essere una decisiva azione politica. Ciò arriverà più presto che tardi e allora entreremo in una nuova fase, si apriranno nuove porte”.

Perché e per chi si apriranno le porte?.

 

* Aram Aharonian è Magister in Integrazione, giornalista e docente uruguaiano, fondatore di Telesur, direttore dell’Osservatorio sulla Comunicazione e la Democrazia, presidente della Fondazione per l’Integrazione Latinoamericana.

[Trad. dal castigliano per ALBAinformazione di Vincenzo Paglione]

 

El caballo de Troya del ISIS ¿Hay todavía un piloto en Washington?

por Michael Jabara Carley – Red Voltaire 
21 de enero de 2016.- La crisis siria es un claro ejemplo de doble juego e hipocresía políticas. Aunque el Consejo de Seguridad adoptó –por unanimidad– dos resoluciones, una contra el financiamiento de al-Qaeda y el Emirato Islámico y otra a favor de la paz en Siria, la guerra sigue su curso… gracias al financiamiento de varios miembros de ese mismo Consejo de Seguridad. ¿Son los gobernantes incapaces de lograr que sus administraciones obedezcan? ¿Es una forma de incompetencia política de gobernantes que ya no saben qué hacer? ¿O será más bien una voluntad maquiavélica de proseguir la guerra sin decirlo?
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El caballo de Troya del ISIS (el Emirato Islámico, también designado como Estado Islámico o Daesh, EI, ISIS o ISIL) permite al Tío Sam invadir Siria.

El secretario de Estado estadounidense John Kerry viajó recientemente a Moscú para conversar allí sobre la crisis siria con su homólogo ruso Serguei Lavrov y con el presidente Vladimir Putin. Los periodistas pudieron observar los estrechones de manos así como las sonrisas y risas calurosas entre Kerry y su homólogo ruso. Kerry declaró que el presidente sirio Bachar al-Assad no tendrá que dimitir de inmediato y que Estados Unidos no está tratando de aislar a Rusia. ¡Qué buena noticia y qué agradable sorpresa para los rusos! El show de Moscú dio la impresión de un verdadero éxito. Kerry paseó por la calle Stariy Arbat, donde se encontró con transeúntes rusos sonrientes y compró suvenires para su regreso a casa.

En los siguientes días, el Consejo de Seguridad de la ONU adoptó una resolución que exhorta al alto al fuego y la negociación. Periodistas rusos y occidentales ahora dicen igualmente que existe una esperanza para evitar que lo peor llegue a suceder en Siria. Y es posible que ustedes lo sepan, si Estados Unidos quiere un alto al fuego es porque sus aliados «yihadistas moderados» están siendo derrotados por el ejército sirio, que goza del respaldo de la aviación rusa.

¿Puede ese optimismo garantizar una paz en Siria? Es difícil imaginar de qué manera.

Kerry dirá lo que quiera en Moscú, pero en cuanto llega a Washington cambia de canción, o son sus colegas quienes lo hacen. Su jefe, el presidente Obama, repitió que «Assad tiene que irse» sólo unos días después del regreso de Kerry a casa. Y después apareció la extraña historia publicada por Seymour M. Hersh, el periodista estadounidense especialista en revelar escándalos, quien afirma que no todos los miembros del gobierno [estadounidense] se hallan en estado de muerte cerebral [1], notable descubrimiento cuando vemos la política exterior de Estados Unidos. Varios altos oficiales de las fuerzas armadas estadounidenses, entre los que se hallaba nada más y nada menos que el entonces jefe del Estado Mayor Conjunto, el general Martin Dempsey, estaban en efecto enviando –de manera indirecta y muy secreta– información militar al gobierno sirio para ayudarlo a combatir el Emirato Islámico, al-Qaeda y las fuerzas yihadistas aliadas que operan en Siria. Simultáneamente, la CIA, con el respaldo de Obama, enviaba armas por aquí y por allá para ayudar a los yihadistas a derrocar el gobierno de Assad.

El general Dempsey salió del cargo en septiembre de 2015 y fue reemplazado por el general Joseph Dunford, un verdadero rusofobo, que ve a Rusia como una «amenaza existencial» para Estados Unidos. Este es el tipo de respuesta clásica de Washington: El agresor acusa a su víctima de agresión premeditada. El 22 de diciembre, Estados Unidos golpeó a Rusia con la adopción de nuevas sanciones injustificadas. El pretexto sigue siendo el mismo: la «agresión» rusa en Ucrania.

Una nueva provocación estadounidense, estarán pensando ustedes, mientras que Rusia busca una solución pacífica para la guerra en Siria. El gobierno ruso adopta una posición sensible. Pero, ¿existe una real posibilidad de paz negociada en las actuales circunstancias?

 

Si la guerra en Siria fuese una simple guerra civil, como dicen frecuentemente los medios de prensa, sería posible estimular los beligerantes a vestirse de traje y corbata y sentarse a negociar una solución. Desgraciadamente, la guerra en Siria no es una guerra civil. Es más bien una guerra de agresión a través de intermediarios dirigida por Estados Unidos, el Reino Unido y Francia (hasta el momento de la masacre perpetrada en París en noviembre de 2015), guerra de agresión que Turquía, Arabia Saudita, Qatar, Jordania y el Estado de apartheid de Israel se empeñan en proseguir.

El Emirato Islámico, la CIA y el Ejército Sirio Libre se esconden al paso del oso ruso.

Turquía desempeña en esa guerra un papel sucio, diabólico. Suministra, a través de sus fronteras con Siria, armas y municiones destinadas al Emirato Islámico. En sentido opuesto a esas armas y municiones viaja el petróleo que el Emirato Islámico se roba en Siria, que se vende a bajo precio para generar ganancias que los yihadistas utilizan en su guerra contra Assad. Se estima que el Emirato Islámico obtiene mensualmente 40 millones de dólares gracias a la exportación de ese petróleo (estimado anterior a la intervención rusa), pero eso es una bagatela en relación con el dinero que los yihadistas necesitan para su guerra contra Siria.

En realidad se necesitan muchos más millones de dólares. Arabia Saudita y Qatar son importantes proveedores y financistas del movimiento yihadista salafista. Jordania permite el entrenamiento de yihadistas en su territorio y autoriza el paso hacia Siria a través de sus fronteras. Israel también los apoya en el Golán ocupado, prestando incluso atención médica a los yihadistas heridos [2].

Una coalición de países –cuatro de ellos son incluso miembros de la OTAN– está librando una guerra de agresión contra Siria. Frente a este grupo de enemigos, el gobierno y el Ejército Árabe Sirio, desplegando una notable maestría en materia de guerra, han logrado resistir durante más de 4 años. El presidente Assad ha demostrado su coraje y tenacidad, así como sus calidades como líder, rechazando las presiones para obligarlo a dimitir y manteniéndose presente en Damasco, compartiendo así el peligro que corren todos los sirios con el simple hecho de vivir en su país. No hay dudas de que Obama quisiera deshacerse de Assad antes de hablar de elecciones en Siria, elecciones que Assad ganaría casi con seguridad.

En Moscú, la agencia Sputnik estimó que en Siria hay probablemente no menos de 70 000 yihadistas extranjeros. Esos combatientes parecen en su mayoría muy motivados, ampliamente aprovisionados con armas por Estados Unidos y profundamente implantados en diferentes lugares de Siria. Desde el inicio de la intervención rusa del lado del gobierno sirio, se han alcanzado progresos en cuanto a sacar a los yihadistas de lugares que controlaban. Pero la guerra no estará cerca de terminarse mientras se mantengan abiertas las vías de aprovisionamiento a través de Turquía, Irak, Jordania, Israel e incluso el Líbano.

El papel de Turquía es particularmente peligroso. Es un país miembro de la OTAN y está utilizando su posición privilegiada para cometer actos de agresión, simultáneamente contra Irak y contra Siria. Turquía derribó un avión ruso en una acción premeditada, seguramente con el consentimiento tácito de Estados Unidos, y luego corrió a esconderse bajo las faldas de la OTAN [3]. Todo indica que el gobierno turco quería sabotear la nueva tendencia a la cooperación de Europa con Rusia en la lucha contra el Emirato Islámico, o a provocar una guerra entre la OTAN y Rusia, por muy absurdo que eso pueda parecer. Los demás miembros de la OTAN (como Estados Unidos, Francia y el Reino Unido) también han estado profundamente implicados en esta guerra por intermediarios en contra de Siria. En efecto, después de la destrucción de Libia, se ha sabido que aviones de la OTAN fueron utilizados en secreto para transportar yihadistas y armas provenientes de Libia hacia los frentes del Medio Oriente. Los miembros de la OTAN son, en efecto, aliados del Emirato Islámico y al-Qaeda en la lucha contra el gobierno sirio.

La lección del consejero militar estadounidense a los mercenarios árabes. «Repitan conmigo: “¡Somos rebeldes sirios!”.»

Para estar tranquilos, Estados Unidos y sus vasallos europeos han tratado de enmascarar sus vínculos con la guerra yihadista en Siria iniciando falsas incursiones aéreas contra objetivos del Emirato Islámico, bombardeando a veces unos cuantos buldóceres aquí y allá y provocando explosiones en la arena para que todos las vean. La intervención rusa sacó a la luz el doble juego de Estados Unidos e invirtió la correlación de fuerzas militares en Siria. Pero, en este momento, la fuerza aérea estadounidense advierte a los conductores de los camiones-cisterna de los yihadistas antes de bombardearlos, o simplemente se niega a bombardear esos vehículos –que transportan el petróleo robado por el Emirato Islámico– alegando que son propiedad privada. ¿Cuándo se ha visto, desde la Segunda Guerra Mundial, a Estados Unidos vacilar en bombardear blancos civiles? Podemos imaginar que Obama y la CIA, al verse atrapados con las manos en la masa en Siria, están furiosos contra Putin, que los ha desenmascarado ante todos. Pero el gobierno ruso ha ofrecido a Estados Unidos una «puerta de salida» al proponer una amplia alianza anti-yihadista y negociaciones de paz para resolver el conflicto.

La paz es una idea maravillosa y constituye la puerta de salida ideal para Washington. Es un gesto práctico. Pero, ¿cómo hará el ministro ruso de Exteriores Serguei Lavrov para que Arabia Saudita, Turquía, Qatar, Jordania e Israel –sin entrar a mencionar a los propios Estados Unidos y el Reino Unido– cesen su apoyo al movimiento yihadista en Irak y en Siria? Hablar de una alianza imposible es como meter un pie en un nido de serpientes con la esperanza de que no muerdan. ¿Son realistas tales esperanzas? «Quizás, pero eso no es diplomacia.» Lavrov podrá decir: «Al menos, nosotros hicimos el esfuerzo.» Para ser diplomático ruso en este momento se necesitan infinita paciencia y talentos de actor.

Rusia está tratando con gran delicadeza de llevar a Estados Unidos a poner fin a su apoyo a los «yihadistas moderados». La realidad es que no existen tales moderados. Como tampoco existe el llamado Ejército Libre Sirio (ELS). En cuanto los yihadistas decapitan a unos cuantos infelices, los voluntarios del ESL salen corriendo horrorizados y dejando su armamento en manos del Emirato Islámico, o se mofan de la estupidez de los infieles y se pasan con sus armas al bando de los yihadistas.

Incluso si Rusia obtuviera compromisos verdaderos de parte de Estados Unidos, lo que hasta ahora no parece nada seguro, ¿qué hacer con Turquía, Arabia Saudita y los países del Golfo? ¿Y qué hacer con los yihadistas extranjeros en Siria? ¿Se estimulará a los terroristas y criminales de guerra a regresar a los 40 países de donde provienen para incrementar allí la violencia? ¿Y qué hacer con los yihadistas sirios, aunque no dispongamos de ninguna fuente de información sobre su número? ¿Serán autorizados a quedar en libertad, o peor aún, serán reconocidos como «oposición siria legítima»?

Una coalición anti-yihadista de voluntarios tendría que trabajar muy duro para acabar con el Emirato Islámico y sus aliados. Pero la coalición de serpientes que Rusia está tratando de hacer evolucionar se compone de padrinos del Emirato Islámico. ¿Cómo puede funcionar eso? Algunos temen que la Coalición de Voluntarios, con la posible excepción de Francia, no haya renunciado en realidad a respaldar el Emirato Islámico, a pesar de que digan lo contrario. Estados Unidos sigue siendo el culpable en jefe que sigue aplicando sus peligrosas políticas de doble juego: «Los 4 puntos fundamentales de la política de Obama en Siria se mantienen intactos hasta el día de hoy», escribe Seymour Hersh. Y cita:
- la insistencia en cuanto a la partida de Assad;
- la afirmación de que una amplia coalición contra el EI (Estado Islámico) es imposible;
- el mito de que Turquía es un aliado firme en la guerra contra el terrorismo y
- el mito de que realmente existe una oposición moderada que Estados Unidos tendría que apoyar.

Sólo los yihadistas que obedecen a Washington son considerados «moderados».

Una política basada en falsas promesas conduce inevitablemente a un fracaso. La política de Obama no es la excepción. Assad es un valiente líder de la resistencia siria contra la invasión yihadista. La única coalición posible contra el Emirato Islámico, al-Qaeda y sus satélites es con Assad y Rusia. Turquía es un peligroso provocador que está jugando con fósforos en medio de barriles de pólvora, tratando de arrastrar la OTAN hacia una alianza más profunda con el Emirato Islámico, o incluso a una guerra contra Rusia. Y para terminar, en Siria no hay fuerzas yihadistas «moderadas». El Ejército Libre Sirio (ELS) no existe en lo absoluto y los supuestos «moderados» no son menos asesinos que sus aliados del Emirato Islámico.

No podemos reprochar a los rusos que traten de organizar una alianza anti-yihadista en Siria. Pero sus potenciales aliados, quizás con excepción de una Francia supuestamente arrepentida, son todos un nido de serpientes en la arena. Y Obama, el premio Nobel de la Paz, es la serpiente principal.

«¿Se dan cuenta ustedes de lo que han hecho?», preguntaba Putin en septiembre desde la tribuna de la ONU. Parece que no, todavía no se dan cuenta, aunque digan lo contrario. Pero, como ya sabemos, no hay peores ciegos que los que no quieren ver.

[1] «De militaire à militaire», por Seymour M. Hersh, London Review of Books (Reino Unido), Réseau Voltaire, 18 de enero de 2016. (Este artículo de Seymour Hersh está en proceso de traducción al español. Nota de la Red Voltaire.

[2] «Más de 500 yihadistas reciben atención médica en el Ziv Medical Centre de Israel », Red Voltaire, 23 de noviembre de 2015.

[3] «Los registros de los radares sobre el ataque turco contra el avión ruso», por Valentin Vasilescu; «¿Por qué derribó Turquía el Sukhoi-24 ruso?», por Thierry Meyssan, Red Voltaire, 29 y 30 de noviembre de 2015

300 giorni di guerra allo Yemen: la distruzione di un paese in cifre

da lantidiplomatico 

Il bilancio dei 300 giorni di guerra contro lo Yemen condotta dalla coalizione capeggiata dall’Arabia Saudita è spaventoso, in primis, in termini umanitari: 8000 morti, di cui 1996 bambini e 1519 donne e 16.000 feriti. E non solo.

Più di 8.000 yemeniti sono stati uccisi, tra cui 1996 bambini e 1519 donne e quasi 16.000 sono stati feriti, secondo il coordinatore dell’alleanza contro i crimini commessi dai sauditi, Ali al-Assemi, dettagliata in una conferenza stampa a Sana’a.

Inoltre, ci sono 1,2 milioni di sfollati e 325,137 mila case danneggiate.

Secondo l’infografica distribuita, sono anche state totalmente o parzialmente distrutte 615 moschee, 238 strutture sanitarie, 569 tra scuole e istituti, e 16 postazioni dei media.

In termini di infrastrutture, gli attacchi della coalizione saudita hanno colpito: 19 aeroporti, 10 porti, ponti 512, 125 centrali elettriche, 167 stazioni di comunicazione, 164 reti idrauliche.

Per quanto riguarda il settore della produzione, il bilancio della distruzione è il seguente: 970 edifici pubblici, 546 depositi di approvvigionamento, 353 tra centri commerciali e mercati, 409 camion di prodotti alimentari, 175 navi cisterna, 238 stazioni di servizio, 59 siti archeologici, 119 siti turistici, 190 industrie, 42 centri sportivi, 7 depositi di grano, 125 centri di ricovero.

Os terroristas

por João Carlos

Há dias, na SIC, um advogado que ali costuma fazer o enquadramento jurídico-legal de crimes que, quase todos os dias, são notícia, questionado pela Júlia Pinheiro sobre os atentados de Paris e os perigos que o Estado Islâmico representaria para os portugueses, disse, depois de manifestar o seu pesar pelas vítimas e a sua solidariedade para com as respectivas famílias, que aquilo que ele teme, realmente, são os banqueiros e os políticos. Esses é que o aterrorizam e representam um perigo gravíssimo para os portugueses, declarou ele com vigorosa firmeza e incontestável coragem. Como isto aconteceu à hora de almoço – e precisamente, na altura em que eu almoçava – dei um salto, engasguei-me e, mal me recompus, aplaudi o senhor, ainda um pouco incrédulo com tão afoitas e lúcidas afirmações. Voltei-me para quem me acompanhava e disse:

– Ou me engano muito, ou o Balsemão vai prescindir dos serviços deste homem. Daqui a uns tempos, já não o vamos ver nem ouvir.

O futuro o dirá. Vamos, como já perceberam, falar dos atentados de Paris, embora fosse do novo governo que eu gostaria de hoje vos falar. Um governo que nos desse esperança de sairmos do pesadelo que foi termos sido vítimas, durante quatro anos, dos mais desenfreados e cruéis atentados terroristas que, por via administrativa, destruíram a vida a milhões de portugueses.

O Estado Laranjânico, onde pontificam sinistras assombrações como Cavaco, Passos e Portas, contudo, ainda resiste num estertor prolongado e fétido, pois o seu venerável chefe, talvez à espera de um milagre que o inspire para uma solução que lhe permita reanimar o monstro sem que lhe chamem Frankenstein, viajou para a Madeira. Portugal pode esperar. Há quem diga, no entanto, que, desesperado, Cavaco Silva apenas quer dar tempo a Passos e Portas para destruírem as câmaras de gás e os fornos crematórios (metafóricos, já se vê), onde esturricaram o presente e o futuro dos portugueses. Deixemos, por agora, o terrorismo interno, e vamos ao terrorismo internacional. Imperial, se quiserem.

A primeira questão que se coloca quando sucede o que sucedeu em Paris, é esta: A QUEM APROVEITA O CRIME? Pensando bem, a questão que se deve colocar, nesta caso concreto, é a seguinte: A QUEM INTERESSA – OU APROVEITA – O ESTADO ISLÂMICO?

O Estado Islâmico interessa a Israel e interessa aos Estados Unidos. Interessa, consequentemente, à União Europeia, cada vez mais entregue às garras dos Investidores e consagrada à voracidade dos Mercados (para além de estar refém de umas fotocópias chamadas dólares). Interessa, ainda, às chamadas petro-monarquicas integristas, como a Arábia Saudita, a quem compete a função essencial de financiar todo o tipo de terrorismo, seja ele o mais fanático, seja ele o de feição mais moderada, como o que pretende destruir o estado sírio, cuja laicidade e pendor tolerante representam uma blasfémia para os fundamentalistas islâmicos. E, pelos vistos, para os governos ocidentais, que se abraçam aos déspotas sauditas, mas acham, como acha Holland, que o ditador retrógado é Assad.

É, pois, perfeitamente claro que o EI não aproveita à generalidade dos países árabes – ou do mundo árabe – antes abre caminho para a ingerência estrangeira (veja-se por, exemplo, a Líbia) e a sua destruição. O EI não aproveita ao Islão, antes contribui para o seu descrédito, já que a propagando ocidental, de forma que tem tanto de infame como de irresponsável, difunde a ideia de que Islão é uma religião de cariz opressor, violento e expansionista, visando a dominação do mundo.  

Quem lucra, pois, com o EI? Israel e o Ocidente. E quando digo Ocidente, não me refiro aos milhões de europeus nem norte-americanos, mas aos grandes interesses económicos que dominam a UE e os EUA, e de onde querem submeter aos seus interesses todos os países e os respectivos povos. Figurões que nunca caem às balas e às bombas que alguém lança por eles. Figurões que não frequentam o Bataclan.  

E no topo disto tudo, Israel e o sionismo judaico, com a sua ambição hegemónica e que já domina quase por absoluto o mundo da alta finança. Para estes novos déspotas da humanidade, o terrorismo é a última coisa que eles querem que acabe, pois com o medo que provoca dá-lhes argumentos para aplicarem as medidas políticas, económicas, sociais, militares e financeiras que melhor lhes convierem. Dá-lhes os pretextos necessários para imporem a sua vontade e terem o mundo – a humanidade – nas mãos. 

E daqui se conclui que o EI resulta do esforço que os EUA/Israel/UE/Investidores têm vindo a desenvolver para controlarem toda a região mediterrânea, como parte de uma caminhada que olha ainda mais para Leste. Aliás, sabe-se que os hospitais de Israel estão a tratar os feridos do EI, e que é Israel o principal comprador do petróleo que o EI vende.
Curiosamente, depois disto ter sido divulgado (por cá, o assunto é tabu para os midia) o senhor Jonh Kerry, secretário de Estado dos EUA – o mesmo que se atreveu a dar palpites sobre a questão catalã, provando que os EUA se julgam no direito de decidir o que cada povo, em qualquer parte do mundo, pode, ou não, fazer – descobriu que Assad compra petróleo ao EI! Só se for para o EI dar mais depressa cabo dele, Assad, e da Síria. Manobra tosca, é claro, mas os EUA sabem bem como a intoxicação informativa destrói toda e qualquer capacidade crítica de milhões de seres humanos. 


Paralelamente a isto, é colocada a questão religiosa. O outro papão. O Islão, dizem-nos, quer dominar a Europa e converter-nos a todos ao islamismo. As nossas mulheres andarão de burka e nós, naturalmente, se resistirmos aos novos senhores, espera-nos a degola. Espantosamente – ou talvez não, dado o estado de profunda catatonia cerebral em que milhões de pessoas se deixaram cair a ver telenovelas, casas dos segredos e discursos do Cavaco ou de dirigentes desportivos – há quem acredite tanto nisto como houve quem acreditasse que os comunistas comiam criancinhas ao pequeno almoço. 

Pelo que estamos a ver, o EI está a dar a Síria a quem a queria. Foi preciso imolar mais de uma centena de franceses, mas Obama, Holland, Merkel e outros ordenanças menores lidam bem com isso. Como Bush lidou com o seu providencial 11 de Setembro. 

Israel agradece. Os Investidores também. 

O terrorismo, por isso, está para lavar e durar!

Vizcardo Guzmán, precursore dell’indipendenza latinoamericana

juanpabloviscardo-726797di Vincenzo Paglione

È senz’altro vero che un testo è la conseguenza di un preesistente lavoro sociale e ideologizzante, ma ciò non nega che la ragione possa indagare e valutare l’adozione di certe pratiche e argomenti a giustificazione di determinate politiche, senza proporsi una riflessione per comprendere come debellare l’ingiustizia e promuovere la giustizia. È così che ogni testo rispecchia il modello della cultura a cui appartiene, dei suoi rapporti interni e della connessione esistente tra le idee-guida in esso contenute. Questa è una delle condizioni a cui deve sottostare un componimento letterario per essere assimilato all’interno della cultura come possibilità nella cultura. Il fatto di possedere un struttura linguistica storicamente determinata, sociale per definizione non isolabile, e dunque sempre ideologizzata, fa sì che il testo si ponga come il prodotto di un precedente lavoro sociale linguistico e ideologizzante, necessariamente detentore di un carattere storico-sociale, le cui modalità innovatrici o rivoluzionarie intervengono in favore del processo sociale emancipatore. Se si passa dalle affermazioni politiche prese nella loro singolarità come un prodotto originario della periferia dell’impero e si prosegue a considerare le circostanze e le condizioni concrete in cui presero forma, il quadro cambia. Emergono quei significati di un patrimonio di vocaboli e concetti che non riposano sulla continuità e le intese, ma scaturiscono dal confronto politico.

Il testo della Carta dirigida a los españoles americanos por uno de sus compatriotas, scritta nel 1792 ma apparsa solo nel 1801 nella versione spagnola così come l’aveva diffusa il Precursore venezuelano dell’indipendenza americana Francisco de Miranda, è uno dei documenti più importanti che ha scritto la storia del popolo dell’America latina. La versione originale di Viscardo in lingua francese era stata  ripresa e tradotta in inglese e in spagnolo da Miranda, il quale si assunse l’incarico di divulgarla in tutto il continente ispanoamericano con il compito di far conoscere i suoi piani di emancipazione al fine di guadagnare i consensi necessari alla causa liberatrice dell’America spagnola.

La Carta assume un’importanza direttamente politica con conseguenze di lunga durata. Questo documento consente di tener presente la dimensione europea e americana della circolazione delle idee portatrici di una nuova cultura che s’inserisce all’interno della dialettica del vecchio e del nuovo, della cultura ufficiale e della cultura di opposizione. L’obiettivo perseguito era quello di raggiungere un pubblico più esteso, cioè per un verso, il lettore europeo, data la prossimità geografica e a cui interessa farsi una opinione dell’idea dell’America, per un altro verso, quello americano nella prospettiva di formare una coscienza nazionale che l’autore giudicava inseparabile dall’assimilazione della cultura moderna.

Ci fu un momento critico nella storia politica, sociale e culturale dell’America spagnola del secolo XVIII in cui le particolari condizioni sociali e culturali della popolazione americana consentirono lo sviluppo di una riflessione e una produzione intellettuale con caratteristiche non facilmente assimilabili alla tradizione europea, nello specifico quella di matrice francese, e nemmeno alla spagnola peninsulare. Tra gli eventi storici che spiccano in questo periodo e che daranno luogo alla gestazione del processo emancipatore si segnala il decreto di espulsione dei gesuiti dalle terre americane emanato da Carlo III nel 1767. Tra di loro c’era il giovane frate proveniente dalla giurisdizione di Arequipa –Perù- Juan Pablo Viscardo y Guzmán (Arequipa 1748, Londra 1798), non ancora ventenne al momento dell’allontanamento.

Viscardo cominciò a scrivere la sua Carta stando in Italia, precisamente nel suo soggiorno in Toscana, tra il 1787 e il 1791, e la concluse quasi certamente a Londra, dove stabilirà la sua ultima e definitiva dimora. Sarà grazie al pensiero del gesuita peruviano  che si cominceranno ad abbattere le mappe culturali che proponevano l’identità come una opzione nazionale dipendente dall’impero spagnolo. Contrariamente a quanto si affermava, l’americanismo proposto da Viscardo si porrà come nuova opzione identitaria di liberazione dalla Spagna, politicizzando l’azione discorsiva all’utilità sociale e culturale del contesto regionale. I primi tre secoli dell’America latina li sintetizza in quattro parole: ingratitud, injusticia, servidumbre y desolación (ingratitudine, ingiustizia, servitù e devastazione).

Aunque nuestra historia de tres siglos acá, relativamente a las causas y efectos más dignos de nuestra atención, sea tan uniforme y tan notoria que se podría reducir a estas cuatro palabras: ingratitud, injusticia, servidumbre y desolación; […].

“Nonostante che da tre secoli in qua la nostra storia relativamente alle cause e agli effetti più degni della nostra attenzione, appaia così uniforme e così nota che si potrebbe ridurre a queste quattro parole: ingratitudine, ingiustizia, servitù e devastazione; […]”[1].

Stando a Londra si muoverà nell’ambiente diplomatico del Foreign Office, descrivendo il progetto d’indipendenza pensato, sottoponendo i vantaggi commerciali che avrebbe goduto l’Inghilterra se avesse sostenuto, economicamente e militarmente, la causa dell’emancipazione dell’America meridionale. In un primo momento i funzionari davano l’impressione di accoglierlo favorevolmente, ma col passare del tempo giungeranno solo dilazioni e rimandi che renderanno l’eventuale azione dello Stato inglese sempre più lontana, dovuto a ragioni di sicurezza politica che escludevano eventuali tensioni che si potevano innescare nei rapporti con gli altri Stati e, in particolare, con la Spagna.

Ora, di fronte a questa nuova circostanza, e proprio in quanto costretto dalle durezze della storia a superare sé stesso e il proprio orizzonte di partenza, in Juan Pablo comincia a insinuarsi quello che alcuni anni dopo diverrà un prezioso lascito di idee e di critica che il fuoco incrociato delle esperienze vissute lasceranno irrevocabilmente segnato. Nel frattempo, da Londra, spedisce diverse lettere con le quali scambia informazioni con altri esuli americani stanziati in Italia.

Con la rielaborazione del pensiero illuminista e, in particolar modo, di quello di Rousseau, in modo fecondo –senza tralasciare nemmeno quello di tanti uomini di lettere americani che con la loro penna lottarono per la causa della libertà- Viscardo riesce a far emergere una trama politica ricca di suggestioni. Da questo rinnovamento scaturirà l’idea, ripresa successivamente da Francisco de Miranda, Simón Bolívar, Andrés Bello, ecc., di un intellettuale di tipo nuovo, non più orgoglioso della sua separatezza dal corpo sociale, ma organico ai processi di rinnovamento in atto, ovvero impegnato in prima persona nella lotta politica e sociale, e capace di proporsi come guida consapevole di essi. Sarà proprio il venezuelano Miranda, il cui nome in quegli anni si associava indissolubilmente a quello della sua missione, vale a dire, di principale agente per l’emancipazione delle Indie spagnole, a ereditare i documenti dopo la morte dell’ex gesuita, compresa anche la Carta, che s’incaricherà di pubblicare nella lingua nella quale fu originariamente redatta da Viscardo, cioè in francese e, successivamente, seguiranno le traduzioni in inglese e in spagnolo che farà circolare in modo che raggiunga il maggior numero di persone possibile e conquistare non solo il favore degli abitanti dell’ex impero inca, ma del mondo intero. Alcuni anni più tardi in un altro documento che avrà per titolo Carta de Jamaica, redatta da Simón Bolívar durante il suo esilio, si osserverà l’influsso ricevuto dalla Carta di Viscardo per quanto concerne la struttura del discorso, ossia contenente una parte storico-descrittiva sullo stato misero in cui versano le colonie americane e un’altro più rivendicativo per quanto compete l’elaborazione di un progetto di liberazione a livello continentale.

Al presente […] la muerte, el deshonor, cuanto es nocivo nos amenaza y tememos: todo lo sufrimos de esa desnaturalizada madrastra. El velo se ha rasgado y hemos visto la luz y se nos quiere volver a las tinieblas: se han roto las cadenas; ya hemos sido libres y nuestros enemigos pretenden de nuevo esclavizarnos. Por lo tanto, América combate con despecho y rara vez, la desesperación no ha arrastrado tras sí la victoria.

“Attualmente la morte, il disonore e tutte le cose più nocive ci minacciano e le temiamo: soffriamo tutto ciò che proviene da quella matrigna snaturata. Il velo si è strappato e abbiamo conosciuto la luce e ci vogliono riportare alle tenebre: si sono rotte le catene; abbiamo conquistato la nostra libertà e i nostri nemici nuovamente pretendono di restituirci alla schiavitù. Pertanto l’America lotta spinta da risentimento, sono contate le volte che la disperazione non ha condotto alla vittoria”[2].

Se si tengono presenti tali premesse e il contesto in cui si inseriscono, evitando di tralasciare l’enorme effetto esercitato dalla diffusione delle idee progressiste scaturite dal secolo dei lumi e l’esempio indipendentista dell’America del Nord (1776), unico nel suo genere, si può capire come la Carta si fa strumento di un’operazione di vasta portata civile, intesa a incidere sulla realtà contemporanea, giacché per la prima volta propone l’idea complessiva di una organizzazione sociale ed economica, dei rapporti politici e dei rapporti fra le classi. In altre parole questo documento, critico verso l’oppressione assolutistica, svolgerà un ruolo di primo piano nell’avvio del processo d’indipendenza dell’America meridionale.

El español sabio y virtuoso, que gime en silencio de la opresión de su patria, aplaudirá en su corazón nuestra empresa. Se verá renacer la gloria nacional en un imperio inmenso, convertido en asilo seguro para todos los españoles, que además de la hospitalidad fraternal que siempre han hallado allí, podrán respirar libremente bajo las leyes de la razón y de la justicia.

“Lo spagnolo saggio e virtuoso, che geme in silenzio l’oppressione della sua patria, nel suo cuore approverà la nostra impresa. Si vedrà rinascere la gloria nazionale in un impero immenso, trasformato in sicuro asilo per tutti gli spagnoli, che, oltre alla fraterna ospitalità che in esso hanno sempre goduto, potranno respirare liberamente sotto le leggi della ragione e della giustizia”[3].

Nel momento in cui le idee della cultura illuminista lottano per aprirsi un varco nella società, nonostante le battute d’arresto esercitate dalla Corona spagnola, Viscardo attraverso il suo scritto risale al passato per cercare in esso le radici storiche dell’arretratezza in cui ancora si trova e per fare i conti con  la società coloniale dell’epoca.

La reunión de los reinos de Castilla y de Aragón, como también los grandes estados, que al mismo tiempo tocaron por herencia a los reyes de España, y los tesoros de las Indias, dieron a la corona una preponderancia imprevista, y tan fuerte, que en muy poco tiempo trastornó todos los obstáculos, que la prudencia de nuestros abuelos había opuesto para asegurar la libertad de su descendencia. La autoridad real, semejante al mar cuando sale de sus márgenes, inundó toda la monarquía, y la voluntad del rey, y de sus ministros, se hizo la ley universal.

“L’associazione dei regni di Castilla e di Aragón, come anche dei grandi stati che simultaneamente furono ereditati dai re di Spagna, insieme ai tesori delle Indie, diede alla corona una preponderanza imprevista e così forte che in breve tempo travolse ogni ostacolo che la prudenza dei nostri avi aveva opposto per assicurare la libertà della loro discendenza. L’autorità regale, simile al mare quando prorompe dalla riva, inondò tutta la monarchia e la volontà del re e dei suoi ministri e si fece legge universale”[4].

E in altro luogo si legge:

Las diversas regiones de la Europa, a las cuales la Corona de España ha estado obligada a renunciar, tales como el reino de Portugal, colocado en el recinto mismo de la España, y la célebre República de las Provincias Unidas, que sacudieron su yugo de hierro, nos enseñan que un continente infinitamente más grande que la España, más rico, más poderoso, más poblado, no debe depender de aquel reino, cuando se halla tan remoto, y menos aún cuando está reducido a la más dura servidumbre.

“Le diverse regioni d’Europa, verso le quali la corona spagnola si è vista obbligata dover rinunciare, tali come il regno di Portogallo, situato nella stessa area geografica della Spagna, e la celebre repubblica delle Province Unite che si tolsero di dosso il suo giogo di ferro, ci insegnano che un continente infinitamente più grande della Spagna, più ricco, più potente, più popolato, non deve dipendere da quel regno quando si trova così distante e ancora meno quando è ridotto a una delle servitù più dure”[5].

Partendo dalla critica della gestione delle colonie la Carta offre alle nascenti forze progressiste dell’epoca il progetto di una società futura da costruire e garantire. Tuttavia, nel testo del documento, è facile notare come sia assente una chiara definizione nonché una consistente esemplificazione del ruolo del popolo e della nascente borghesia. Il tacere su quest’ultima nel discorso potrebbe essere stata dettata dalla realtà storica in cui non si poteva ancora ravvisare una borghesia in senso moderno sia sul piano economico sia su quello dell’organizzazione politica e della consapevolezza ideologica. Ecco perché il suo messaggio si rivolgeva soprattutto all’aristocrazia illuminata e al ceto intellettuale dei criollos, i quali si ispiravano ai modelli europei. Specie agli intellettuali il suo messaggio avrebbe dovuto stimolare verso l’auspicato processo di emancipazione.

Era inevitabile che con rispondenza di una simile condizione di arretratezza, Viscardo non fosse in grado di assegnare alla borghesia e, tantomeno, al popolo una funzione importante, neppure come ipotesi di progetto di società, e privilegiasse, anche se non lo rende manifesto, il ruolo di una aristocrazia illuminata come portatrice delle istanze emancipatrici e di progresso civile e sociale. Verrebbe da pensare che la possibilità di agire nella storia del continente americano è, pertanto, affidata alle classi superiori della società coloniale. L’impotenza degli umili scaturisce, quindi, dalla loro collocazione sociale. Questa impotenza assume, però, una precisa articolazione di classe e quindi il popolo non è proposto ancora come soggetto di azione politica che possa contribuire al processo di emancipazione delle condizioni di oppressione, di sottomissione e di paura in cui versa.

¡Cuando a los horrores de la opresión, y de la crueldad, suceda el reino de la razón, de la justicia, de la humanidad; cuando el temor, las angustias, y los gemidos de diez y ocho millones de hombres hagan lugar a la confianza mutua, a la más franca satisfacción, y al goce más puro de los beneficios del Creador, cuyo nombre no se emplee más en disfrazar el robo, el fraude, y la ferocidad; cuando sean echados por tierra los odiosos obstáculos que el egoísmo más insensato opone al bienestar de todo el género humano, sacrificando sus verdaderos intereses al placer bárbaro de impedir el bien ajeno, ¡qué agradable y sensible espectáculo presentarán las costas de la América, cubiertas de hombres de todas las naciones, cambiando las producciones de sus países por las nuestras! ¡Cuántos, huyendo de la opresión, o de la miseria, vendrán a enriquecernos con su industria, con sus conocimientos y a reparar nuestra población debilitada! De esta manera la América reunirá las extremidades de la tierra, y sus habitantes serán atados por el interés común de una sola GRANDE FAMILIA DE HERMANOS.

“Quando agli orrori dell’oppressione e della crudeltà succeda il regno della ragione, della giustizia, dell’umanità; quando il timore, le angosce e i gemiti di diciotto milioni di uomini facciano posto alla mutua fiducia, alla più franca soddisfazione e al più puro piacere dei benefici del Creatore, il cui nome non sia più impiegato per mascherare il furto, la frode e la ferocia; quando saranno abbattuti gli odiosi ostacoli che il più insensato egoismo oppone al benessere di tutto il genere umano, sacrificando i suoi veri interessi al barbaro piacere d’impedire il bene altrui; che piacevole e visibile spettacolo avranno le coste dell’America, popolate da uomini di tutte le nazioni, scambiando la produzione dei loro paesi per le nostre! Quanti, fuggendo dall’oppressione, o dalla miseria, verranno ad arricchirci con la loro industria, la loro conoscenza e a rafforzare la nostra popolazione indebolita! In questa forma l’America congiungerà gli estremi della terra e i suoi abitanti si legheranno dal comune interesse di una sola e GRANDE FAMIGLIA DI FRATELLI.[6]

Nonostante la proposta di Viscardo volesse destare il seme di una coscienza nazionale aspirante a diventare unità politica, le sue idee concorrevano a produrre un certo effetto solo su una piccola percentuale della popolazione urbana della colonia, la quale era in possesso degli strumenti necessari per la comprensione e l’accettazione di quelle concezioni che avrebbero dovuto migliorare quello che sempre più intellettuali vagamente sentivano come la loro terra.

Dunque anche se il pubblico verso il quale era indirizzata la Carta restava pur sempre una minoranza e i ceti subalterni per il momento ne erano esclusi, Viscardo confidava che, mediante la funzione mediatrice esercitata dell’élite criolla, potesse veicolare il suo messaggio rivoluzionario, all’epoca avanzato, o per lo meno spiegabile in base alle condizioni dei tempi In questo modo Viscardo fa giungere il suo pensiero ai ceti subalterni della società coloniale rendendolo comprensibile, materialmente e culturalmente, almeno a un ridotto numero di privilegiati.

L’impossibilità di restare in silenzio di fronte all’istintiva ripulsa per la crudeltà e le manifestazioni di insensibilità, di cui si macchiarono gli spagnoli, spinse Viscardo a ragionare e ad elencare una quantità di motivi ben precisi per mettere sotto accusa l’amministrazione spagnola delle colonie americane.

Si corremos nuestra desventurada patria de un cabo al otro, hallaremos donde quiera la misma desolación, una avaricia tan desmesurada como insaciable; donde quiera el mismo tráfico abominable de injusticia y de inhumanidad, de parte de las sanguijuelas empleadas por el gobierno para nuestra opresión.

 “Se percorriamo la nostra sventurata patria da un capo all’altro, troveremo ovunque la stessa desolazione, un’avarizia così smisurata come insaziabile; dovunque il medesimo traffico vergognoso d’ingiustizia e d’inumanità da parte delle sanguisughe impiegate dal governo per la nostra oppressione” [7].

Nosotros estamos obligados a llenar, con todas nuestra fuerzas, las esperanzas de que hasta aquí el género humano ha estado privado. Descubramos otra vez de nuevo la América para todos nuestros hermanos, los habitantes de este globo, de donde la ingratitud, la injusticia y la avaricia más insensata nos han desterrado. La recompensa no será menor para nosotros que para ellos.

“Noi siamo obbligati a colmare, con tutte le nostre forze, le speranze di cui è stato privato il genere umano. Scopriamo di nuovo l’America per tutti i nostri fratelli, gli abitanti di questa terra, da dove l’ingratitudine, l’ingiustizia e la più insensata avarizia ci ha bandito. La nostra ricompensa non sarà minore della loro”[8].

Il trasformarsi del contesto coloniale indusse Viscardo a operare una scelta lessicale, ovvero a sostituire nel loro complesso il linguaggio adoperato dalla tradizione per quanto concerne la loro definizione costituzionale riferibile alla mutua obbligazione tra sudditi e re, all’affermazione della fedeltà, delle benemerenze, ecc. Spostò, a tal fine, il significato dei topoi che sancivano il vincolo come garanzia verso percorsi che si richiamavano allo scioglimento dei doveri incondizionati ai quali la concezione del patto politico e amministrativo vincolava le colonie con il potere centrale. Questa richiesta di rinnovamento implica, già di per sé, l’insorgere di un’attitudine rivoluzionaria nei confronti della soggezione economica al patto coloniale e ai suoi aspetti giuridici e istituzionali: è una prima ipotesi alternativa indipendentista che, in fondo, celava il desiderio di affermare una propria identità, ovvero di volere attestare una propria storia, geografica e societaria altra da quella della Spagna.

Este momento ha llegado, acojámosle con todos los sentimientos de un preciosa gratitud, y por pocos esfuerzos que hagamos, la sabia libertad, don precioso del cielo, acompañada de todas las virtudes, y seguida de la prosperidad comenzará su reino en el Nuevo Mundo, y la tiranía será inmediatamente exterminada.

“Questa ora è arrivata, accogliamola con tutti i sentimenti di una preziosa gratitudine e per pochi sforzi che facciamo, la sapiente libertà, dono prezioso del cielo, accompagnata da tutte le virtù e seguita dalla prosperità, instaurerà il suo regno nel Nuovo Mondo e la tirannia sarà immediatamente annientata”[9].

Gli anni e gli stenti subiti in un paese straniero che non aveva voluto o saputo ascoltare i consigli sull’autonomia latinoamericana, recarono al gesuita un dolore profondo. Ormai il dramma della sua esistenza si avviava alla fine. Il buio della morte calava sugli occhi  di Juan Pablo Viscardo il 10 febbraio 1798. Aveva cinquanta anni. Anche se la sua vita era finita nella totale indifferenza per i popoli americani iniziava una nuova era.

NOTE:

[1] Juan Carlos Viscardo y Guzmán, Carta dirigida a los españoles americanos por uno de sus compatriotas, in Antonio Gutiérrez Escudero, 2007, “Juan Pablo Viscardo y su “Carta dirigida a los españoles americanos” ”, in Araucaria, año 9 n.17, Universidad de Sevilla. Le note del presente articolo rimandano alla traduzione italiana della Carta di prossima pubblicazione.

[2] Simón Bolívar, Carta de Jamaica, Ed. Ministerio del Poder Popular para la Comunicación y la Información, Caracas, 2008. La traduzione in italiano è dell’autore.

[3] Juan Carlos Viscardo y Guzmán, Carta dirigida a los españoles americanos por uno de sus compatriotas, in , Antonio Gutiérrez Escudero, 2007, op. cit.

[4] Idem.

[5] Idem.

[6] Idem.

[7] Idem.

[8] Idem.

[9] Idem.

[Articolo scritto per ALBAinformazione di Vincenzo Paglione]

Geopolitica dell’assedio

C20E783FCI militari USA nell’America del Sud [i]

di André Deak e Bianca Paiva

Agência Brasil defesanet.com.br

  1. In questa intervista rilasciata qualche hanno fa dal politologo brasiliano ed esperto di geopolitica, Moniz Bandeira, poneva l’accento sulla presenza di basi militari nordamericane in alcuni paesi (teatri di guerra) strategici dell’America meridionale, i quali sono selezionati dal complesso strategico-militare americano per conservare lo statu quo regionale. Questo tipo di strategia consente alle unità operative americane l’appoggio logistico necessario per la conduzione di azioni belliche nei diversi teatri di operazioni che dovessero sorgere nella regione. La strategia nazionale di Difesa degli Stati Uniti ha più volte rimarcato l’importanza di espandere le truppe e l’equipaggiamento logistico militare nel mondo e, nello specifico, nei diversi paesi dell’America meridionale e caraibica (Curaçao, Barbados, Colombia, Guiana, Ecuador, Perù, Paraguay) per consentire un maggiore controllo spaziale e operativo verso quei paesi considerati d’importanza geoeconomica e geostrategica – Brasile e Argentina e, non ultimo nell’ordine, il Venezuela -. L’adozione di questo tipo di disegno influenza la sicurezza dello Stato assediato, le sue relazioni commerciali, diplomatiche e di sviluppo, giacché sono subordinate agli interessi strategici e di sicurezza degli Stati Uniti. Fattori che fortemente influenzano le scelte in politica estera e che limitano di molto l’autonomia in sede internazionale.

Il Venezuela, considerato paese che erode l’influenza e il potere USA nell’America meridionale e caraibica, è stato inserito nel novero degli Stati che bisogna combattere e indebolire mediante lotte economiche (guerra economica), contrabbando, crimine organizzato, innesco di conflitti transfrontalieri, violazione delle libertà civili e dei diritti umani, guerra psicologica, ecc., dilatandoli nel tempo e con lo scopo di riconfermare l’incontrastata supremazia americana nella regione. Il controllo delle risorse naturali dei venezuelani costituisce un fattore molto importante per assicurare a lungo termine il dominio economico, politico e la stabilità della società nordamericana. Difatti il processo di sviluppo economico dei paesi iperindustrializzati dipende dall’approvvigionamento di energia e il petrolio è la più importante fonte energetica.  Ciò ha contrassegnato la storia economica, politica e militare dei nordamericani per il dominio del Venezuela degli ultimi cento anni.

  1. La concretizzazione di un’entità geografica comune che potesse coniugare l’aspetto economico con quello politico da proiettarsi su scala internazionale, si poteva solo ottenere attraverso l’elaborazione di nuovi schemi d’integrazione sub regionale. È stato così che è sorta l’idea della strutturazione di nuove entità (Mercosur, Unasur) come formule più avanzate di quelle già esistenti (Alalc, Sela, Pacto Andino, Comunidad del Caribe, Mercado Centroamericano) con l’obiettivo di coordinare la posizione dell’America Latina di fronte alle sfide del mondo.

Tuttavia questo continente fatto di capricci e dispersioni, diffidenze e aspirazioni di grandezza, continua a fare tutto il possibile affinché questi meccanismi restino limitati, ininfluenti per non produrre l’integrazione richiesta e tanto meno far ascoltare la voce di un’America Latina unita. In questi ultimi anni i governi di alcune nazioni hanno preferito la scelta di negoziare con gli Stati Uniti o con l’Unione Europea sul piano di una presunta uguaglianza o bilateralismo. Preferiscono agire con manifestazioni d’individualismo esacerbato (Colombia e la nuova Argentina di Macri) che in fin dei conti non sono altro che l’espressione di un nazionalismo da sottosviluppo: declamatorio in modo reboante ma privo di contenuti. Sono scelte politiche che non tengono in conto primario l’interesse nazionale, ma garantiscono solo il protettorato americano.

  1. Nella presente fase multipolare la voce dell’America Latina rischia di azzittirsi. La deriva populista a destra di alcuni attori importanti rischia di rendere nulli i criteri che riguardano la difesa dei prezzi delle materie prime o l’intercessione ai forum per un commercio più giusto. L’importanza geostrategica e geopolitica data ai progetti Alba, Celac e Unasur da parte dell’allora presidente venezuelano, Hugo Chávez, rispondevano alle richieste di una regione desiderosa di affermare nel mondo la propria immagine storica; la percezione di una responsabilità e di un destino compartecipe che incalzava verso la realizzazione di uno sforzo comune per combinare le risorse (primarie, energetiche, demografiche) di cui dispone e fare dell’America Latina un potere mondiale.

La presenza di alcuni meccanismi come il Mercosur nel panorama internazionale ha, seppure in modo impercettibile (economicamente e politicamente), confermato e quindi cominciato a produrre la certezza di sviluppi importanti. In più di un’occasione Hugo Chávez aveva segnalato che non si trattava più di una necessaria volontà politica di appoggio al processo d’integrazione, ma della costruzione di una vera e propria concezione politica comune che possa proiettarsi sia verso l’esterno sia verso l’interno. Nonostante le ragioni storiche e sociopolitiche che si avviano verso l’integrazione, il raggiungimento della stessa è piuttosto lastricato di ostacoli.  Esistono grosso modo due gruppi di pressione che ostacolano questo percorso, le multinazionali e gli interessi locali che lavorano in associazione con le prime. In particolare questi ultimi ignorano volutamente gli obiettivi globali di un’integrazione. Ed è proprio qui che non esiste un’intesa. Spesso si tralascia il principio fondamentale, ovvero, la nozione di giungere ad essere una unità, più grande. Invece, le borghesie locali preferiscono adottare la scelta subalterna di comodo, cioè quella delle piccole monadi. La riconsiderazione in termini geopolitici dell’interesse nazionale è una via obbligata che tutti i paesi dell’America Latina devono riconsiderare per evitare di essere dei semplici spettatori, di ruolo e di rango, nello scacchiere internazionale.

Vincenzo Paglione

 

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Agência Brasil: Cosa ci vuole dire riguardo alla presenza degli Stati Uniti in America del Sud?

Moniz Bandeira: Gli Stati Uniti stanno realmente creando, da ormai molti anni, una fascia intorno al Brasile.

Agência Brasil: Di basi militari?

Moniz Bandeira: Proprio così, di basi militari si tratta. La Base di Manta, in Ecuador, e altre in Perù. Alcune di esse sono permanenti, altre sono solo occasionali. Come la base che si trova in Paraguay, che non è una vera e propria base. Hanno una pista di atterraggio costruita negli anni ’80, più grande della pista Galeão (in Rio de Janeiro, la maggior pista di atterraggio del Brasile, con 4.240 m di longitudine).

Ora circola la notizia che questa base sarà dotata di 400 soldati (nordamericani in Paraguay). Eseguono addestramenti insieme ai paraguaiani e formano gruppi di soldati per allenarsi vicino alla frontiera con il Brasile e in altri punti. La cosa più curiosa di tutto ciò e che fa insospettire è che: 1° è concessa l’immunità ai soldati sudamericani; 2° la visita di Donald Rumsfeld (segretario della Difesa degli USA) alla capitale, Asunción de Paraguay; 3° il fatto che Dick Cheney (vicepresidente nordamericano) ha ricevuto negli Stati Uniti il presidente del Paraguay. Che cosa rappresenta il Paraguay per gli Stati Uniti? Ciò costituisce solo una forma di perturbazione del Mercosur.

Agência Brasil: Gli analisti affermano che il Paraguay compie la funzione di alleato degli USA, che già in altro momento aveva svolto l’Argentina, con il presidente Carlos Menem, e in seguito l’Uruguay, con Jorge Battle.

Moniz Bandeira: È proprio quello che cercano di fare, prima con l’Argentina di Menem, dopo con l’Uruguay di Battle e ora vogliono manipolare il Paraguay. È una faccenda molto delicata. Il Paraguay non ha nessun peso. Anzi, se il Brasile decidesse di aumentare la vigilanza nella frontiera, finirebbe il Paraguay, perché la maggior parte delle esportazioni che effettua questo paese le compie attraverso il contrabbando con il Brasile.

Ufficialmente il Paraguay destina al Brasile più del 30% delle sue esportazioni. Se si prende in considerazione anche il contrabbando, la percentuale salirebbe a più del 60%. Ma anche per esportare verso altri paesi il Paraguay, in sostanza, dipende dal Brasile, attraverso i corridoi di esportazione che conducono verso i porti di Santos, Paranaguá e Rio Grande. Il Paraguay è un paese che presenta molte difficoltà, si sovrastima, ma non corrisponde alla realtà. Ogni paese dovrebbe riconoscere i propri limiti e le sue reali relazioni di potere. Il Paraguay è inagibile senza il Brasile e l’Argentina. L’Argentina è solidale con il Brasile e non ha alcun interesse verso il Paraguay come strumento degli Stati Uniti per ferire il Mercosur.

Agência Brasil: Dove si trovano, nello specifico, i militari nordamericani che formano questa “fascia” intorno al Brasile.

Moniz Bandeira: Si estendono dalla Guyana, passano per la Colombia … Bisogna evidenziare che non sono militari uniformati, ma imprese militari private che eseguono una serie di servizi terziarizzati per gli Stati Uniti. Il Pentagono sta terziarizzando la guerra. Già da qualche tempo, inizi degli anni ’90, hanno creato le Military Company Corporations, le quali eseguono i servizi militari per sfuggire alle restrizioni imposte dal Congresso americano. Pilotano gli aerei nella guerra d’Iraq, per esempio. Le compagnie militari private svolgono ogni sorta di lavoro, persino quello sporco: le torture. Con questa trovata eludono le restrizioni imposte.

Agência Brasil: Esistono anche delle operazioni segrete?

Moniz Bandeira: Sì, ma ciò rappresenta un’altra cosa. Abbiamo informazioni al rispetto. Se lei legge i giornali, qualche volta si segnalerà che è stato intercettato un aereo americano in Brasile che in modo clandestino proveniva dalla Bolivia verso il Paraguay. Queste informazioni si trovano un po’ ovunque.

Agência Brasil: Qual è il motivo per il quale ci sono i militari americani in America del Sud?

Moniz Bandeira: I fattori sono diversi. Le basi consentono il mantenimento del bilancio del Pentagono. Per causa dell’industria bellica e del complesso industriale militare, loro hanno bisogno di spendere negli equipaggiamenti militari per realizzare nuovi ordini. È un circolo vizioso. E qual è il migliore mercato per il consumo delle armi? La guerra.

Gli Stati Uniti s’interessano della guerra perché la loro economia dipende in larga parte dal complesso bellico per il mantenimento degli impieghi. Esistono alcune regioni degli USA sotto il totale dominio da parte di queste industrie. Esiste una simbiosi tra Stato e industria bellica. Lo Stato finanzia l’industria bellica e l’industria bellica ha bisogno dello Stato per dare sfogo ai suoi armamenti e alla sua produzione.

Agência Brasil: Esiste qualche ragione strategica dal punto di vista delle risorse naturali?

Moniz Bandeira: I paesi andini sono responsabili di più del 25% del consumo di petrolio negli Stati Uniti. Solo il Venezuela è responsabile di circa il 15% di questo consumo. Da una parte vogliono rovesciare il presidente venezuelano Hugo Chávez, dall’altra sanno che una guerra civile potrebbe far balzare il prezzo del petrolio a più di US$ 200 il barile.

Agência Brasil: Nel libro Formação do Império Americano, lei segnala la presenza di militari nordamericani in America del Sud. Gli Stati Uniti assicurano che molti di quei militari sono lì stanziati per combattere il terrorismo.

Luiz Alberto Moniz Bandeira: Combattere il terrorismo è una sciocchezza. Il terrorismo non è un’ideologia, non è uno Stato. Costituisce uno strumento di lotta, è un metodo di cui tutti ne hanno fatto uso nel corso della storia. Loro ora affermano di voler combattere il terrorismo islamico. Ma perché è sorto il terrorismo islamico?

Perché gli americani presenti in Arabia Saudita occupano i luoghi sacri, per esempio. Prima di ciò, gli USA introdussero il terrorismo islamico in Afganistan per combattere i sovietici. Da lì è iniziato tutto.

Agência Brasil: Gli USA classifica come terroristi all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale del Messico e alle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia. Hanno ragione?

Moniz Bandeira: Loro desiderano che tutti quelli che insorgono contro di loro siano considerati terroristi. È sempre stato così. Hitler definì terroristi tutti quelli che si opponevano all’occupazione tedesca. I compagni che hanno combattuto nella lotta armata in Brasile contro il regime autoritario sono stati classificati come terroristi.

Il terrorismo è un metodo di guerra, usato persino dalla CIA. Che cosa ha fatto la CIA contro Cuba? Progettò un attentato, abbattendo un aereo, per accusare il governo cubano e giustificare l’invasione di Cuba. Progettò di far esplodere un razzo che avrebbe dovuto condurre allo spazio a John Gleen e accusarla per invaderla. La CIA è sempre stata uno strumento di terrorismo. Gli USA definiscono il terrorismo come un’organizzazione al servizio di uno Stato che pratica atti di violenza per il raggiungimento di obiettivi politici. Ed è ciò che sempre ha fatto la CIA.

La CIA, il Mossad [l’agenzia d’intelligence israeliana] e altre organizzazioni. Chi sono i terroristi? Ariel Sharon, David Ben Gurion e Menachem Begin sono stati dei terroristi. Loro hanno fatto esplodere il King David Hotel di Gerusalemme nel 1946, uccidendo delle persone contro il dominio inglese. Hanno vinto e oggi sono diventati statisti.

Agência Brasil: Gli Stati Uniti affermano che esistono dei terroristi nella triplice frontiera.

Moniz Bandeira: Un’altra sciocchezza. Lo dicono solo perché c’è una presenza d’islamici. Questi spediscono del denaro alle loro famiglie. Il fatto che quel denaro possa essere deviato per finanziare altre attività nessuno lo può impedire. È solo un pretesto per giustificare la loro presenza militare nel Paraguay e in altre parti dell’America del Sud. Gli Stati Uniti sono l’unico paese che possiede un esercito che non è pensato per la difesa del paese, ma per mantenere basi americane in tutto il mondo.

Agência Brasil: La presenza delle basi americane può attirare il terrorismo?

Moniz Bandeira: La maggior parte degli attacchi terroristi contro gli Stati Uniti, fino ad ora, sono avvenuti in America Latina. Un buon numero contro i militari, le aziende private nordamericane e contro gli oleodotti in Colombia. Ma possono inventarsi un attentato terrorista a Foz do Iguaçu per accusare i terroristi e, effettivamente, uno di questi attentati è stato organizzato dalla CIA. È il oro mestiere. Questo si chiama guerra psicologica. La CIA è abituata a fare queste cose, persino in Brasile. Veda il caso di Rio Centro: un attentato preparato per giustificare la repressione[ii].

 

NOTE:

[i] Articolo pubblicato da Agência Brasil il 18 gennaio 2006.

 

[ii]  È il nome con il quale si conosce un attentato che il 30 aprile 1981 si voleva perpetrare ai danni di uno spettacolo commemorativo il Primo Maggio, durante il periodo della dittatura militare in Brasile. In un primo momento il governo accusò la sinistra radicale. Ma in seguito si venne a sapere che l’attentato fu organizzato dai settori più radicali del governo militare. Questi ultimi volevano convincere quelli più moderati sulla necessità di avviare una nuova ondata di repressioni con l’obiettivo di paralizzare le manifestazioni di apertura politica che il governo stava attuando. [N.d.T]

[Trad. dal portoghese per ALBAinformazione da Vincenzo Paglione]

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