19 luglio 1979: 34 anni dal trionfo della Rivoluzione Sandinista in Nicaragua

da itanicaviterbo.org

«Mai, prima, in America Latina una rivoluzione è stata così vicina agli ideali libertari (con l’eccezione di alcuni aspetti della Rivoluzione messicana), e con tante similitudini con la Spagna pre-Guerra civile, quella delle comuni agricole, che cercava di cambiare non solo un governo o le sole condizioni economiche, ma i rapporti tra gli esseri umani, sognando l’avvento di quello che il sandinismo definiva El Hombre Nuevo, così come Durruti parlava del “mondo nuovo che ci portiamo nel cuore”. Ho conosciuto quel Nicaragua, e vedendo com’è ridotto oggi, rimpiango il molto che, allora, era ancora possibile fare. Era stato l’unico paese a mettere in discussione la “necessità del carcere”, trasformando le prigioni in fattorie aperte, gestite come cooperative dove i semi-detenuti si dividevano il ricavato dei lavori, e mi capitò spesso di vedere folti gruppi di “condannati” andare a fare il bagno nel Gran Lago, accompagnati da una sola guardia, e disarmata. Del resto, la prima misura presa dal “governo di ricostruzione” fu l’abolizione non solo della pena di morte, ma anche dell’ergastolo, introducendo misure che avrebbero comunque ridotto enormemente l’uso di celle e sbarre». (Pino Cacucci “Un po’ per amore, un po’ per rabbia” Feltrinelli, ’08)

Facile giudicare con il senno del poi, certo. Resta il fatto che se al Nicaragua fosse stato lasciatoil tempodi scegliere la propria strada, senza l’aggressione militare ed economia di cui è stato vittima, siamo convinti che il cammino del sandinismo sarebbe stato diverso, evitandogli le condizioni di sbandamento e le lotte intestine. E lo stesso sandinismo, avrà pur sbagliato per eccesso di ambizione ideologica e per difetto di realismo storico, a evocare la figura dell’uomo nuovo. Ma il bisogno era quello.

Per noi, dell’Associazione italia-Nicaragua, rimane “la certezza che si possa sbagliare dalla parte giusta” senza che questo significhi affatto che loro avessero ragione.

19 LUGLIO! Un’occasione importante per aderire all’Associazione Italia-Nicaragua.

«Non bisogna osservare la civiltà capitalista nelle città, dove va in giro travestita, ma nelle colonie, dove passeggia nuda» (Karl Marx)

Solo che di quanto  avviene nelle “colonie” ce ne dimentichiamo presto. Sono storie che cadono nell’oblio, ed apparentemente ingessate che parlano solo alla nostalgia e al tempo passato. Noi le guardiamo con sufficienza, con un benevolo sorriso, però c’è da domandarsi se quelle non erano la “corrente calda” della storia. È valido anche per la  rivoluzione sandinista del Nicaragua, così nota a chi ha fatto in tempo a viverla e così difficile oggi da rendere a parole; sembra archeologia lontana. Non a caso, chi ha creduto al sogno di un mondo diverso che è andato a pezzi, venendone travolto, ora guarda a quella stagione con un senso di amarezza, di illusioni perdute.

Un piccolo popolo cercava di fare la sua storia, grazie alla spinta rivoluzionaria annientava una feroce dittatura durata 30 anni. Allora non c’era ancora internet ed i cosiddetti social media avrebbero ricoperto un ruolo decisivo nelle proteste e nelle insurrezioni solo dal 1994 con la rivoluzione zapatista. Quel 19 luglio fu come se d’improvviso la rabbia e la miseria non fossero più capaci di nascondersi, iniziarono a uscire attraverso gli sguardi, attraverso la voce, attraverso i corpi; e mentre le strade, di tutto il Nicaragua, si riempivano cambiavano, al riconoscersi occhi negli occhi, la paura, la frustrazione, la rabbia, si trasformavano in un groviglio informe e adrenalinico; fino a essere qualcosa di nuovo, ancora più forte. Speranza. Travolgeva chiunque le capitasse a tiro, una valanga di emozioni cieca e implacabile, una freccia scoccata con precisione, pronta a conficcarsi nel cuore, senza chiedere permesso. A Managua, all’ingresso dei combattenti del Fronte Sandinista, la piazza cantava, ruggiva, migliaia di occhi, mani, sogni, respiravano assieme: era un animale vivo, che si muoveva. La folla che urlava reclamava giustizia sociale! Libertà! Dignità! Speranza, passioni, sui volti d’insorti e combattenti nel nome dei diritti e della libertà. Nel clima della guerra fredda degli anni ‘80, l’originalità sandinista non avrebbe avuto spazio.

Viene stretto un partenariato informale fra il Vaticano e gli Usa di R. Reagan per combattere il governo sandinista, che è di ispirazione allo stesso tempo cristiana e marxista, per combattere fra le altre cose la “minaccia comunista” in America centrale.

«Il Nicaragua è pericoloso perché esporta un esempio… non si attacca il Nicaragua perché non è democratico ma affinché non lo sia» (dal Messaggio del Tribunale dei Popoli).

Così la rivoluzione popolare sandinista ci ha fatto toccare la sofferenza nella pietas, la verità nella follia, la bellezza nella miseria, la nonviolenza nella paura, la disperazione nella luce, l’immaginare l’utopia nel cuore della notte. Anche se alla fine il vincitore è stato ancora una volta il Golia statunitense. Resta il fatto che se al Nicaragua fosse stato lasciato il tempo di scegliere la propria strada, senza l’aggressione militare ed economica di cui è stato vittima, siamo convinti che l’esito del sandinismo sarebbe stato diverso. Quella rivoluzione, avrà pur sbagliato per eccesso di ambizione ideologica e per difetto di realismo storico, a evocare la figura dell’uomo nuovo. Ma il bisogno era quello. Del resto, senza impeti rivoluzionari non succede niente, non solo nella vita politica, anche in quella personale. Per noi dell’Ass.ne Italia-Nicaragua, rimane la certezza “che si possa sbagliare dalla parte giusta” senza che questo significhi affatto che “loro” avessero ragione. Finché un popolo non diventa soggetto della sua storia, la società non è umana, è alienante. Popoli che la violenza la subiscono per tutta la vita e non rispondono con la violenza ma con la solidarietà, con la lotta comune. Non c’è uomo comune che abbia senso di giustizia che non debba sentirsi dalla loro parte. Vale per sempre.

Per questo durante i governi liberisti, che sono succeduti alla rivoluzione, abbiamo sostenuto le lotte delle organizzazioni popolari contro gli effetti devastanti del neoliberismo e delle multinazionali. Come non ricordare la vicenda dei bananeros, e delle multinazionali Usa per l’uso irresponsabile dei pesticidi nelle piantagioni di banane in Nicaragua. Segnaliamo l’uscita in dvd del film “Big boys gone bananas” del regista svedese Fredrik Gertten (www.bigboysgonebananas.com), con al centro la reazione della multinazionale Dole : tentativo di sequestrare il film, denunce a registra e produttori, minacce ai festival che lo proiettavano. Gertten racconta da involontario protagonista uno dei casi più eclatanti di tentativi di limitazione della libertà di espressione da parte di una corporation, dopo che aveva dato voce ai lavoratori in “Bananas” (2009). Con l’avvento del governo Ortega, che ha posto fine a 16 anni di governi liberisti, le cose in Nicaragua sono certamente cambiate e questo richiede di ridefinire le modalità della nostra solidarietà in un momento così difficile in Italia, in cui da una parte è più problematico raccogliere fondi e dall’altra la nostra associazione, come più in generale il mondo dei movimenti e della sinistra, attraversa una fase molto travagliata. Mentre in Italia si arretra su tutti i fronti delle conquiste relative ai diritti e al lavoro, in Nicaragua si assiste ad una fase positiva in cui da una mancanza totale di garanzie e opportunità, si sta avanzando verso un miglioramento economico e verso un processo partecipativo e di riconquista dei diritti. Per questo stiamo cercando di focalizzare i nostri progetti su tre temi: ambiente (ricerca fonti di energia alternativa pulita come la eolica e geotermica), sindacato (formazione sindacale e lotta per la riforma delle pensioni e tributaria), partecipazione (comitati presenti in ogni quartiere), che ci sembrano le realtà più interessanti del Nicaragua attuale.

Ex Presidenti spazzatura: storie parallele dalla Colombia e dalla Spagna

di Juan Carlos Monedero

Pubblicato il 2 giugno 2013.- Ci sono delle volte in cui con grande evidenza si manifesta un vecchio aneddoto della politica sovietica. La storia è il racconto delle due lettere che avrebbe scritto Nikita Krusciov al suo successore, Leonid Breznev, in occasione della sua forzata dimissione. Lettere d’amore tra presidenti, scritte in quell’occasione molto tribolata che determinò la successione del presidente sovietico che aveva sbattuto una scarpa nella tribuna dell’ONU alcuni decenni prima che Chávez affermasse che quel posto puzzasse di zolfo. Le lettere che fece recapitare Krusciov al suo successore contenevano delle istruzioni: «Quando non vedi più nessuna via di uscita, apri la prima lettera. Quando si ripresenti un’altra situazione insormontabile, apri la seconda».

Sembra che Breznev così avesse fatto l’anno successivo. Trovò scritto un rigo che riecheggiava un’aria di bolero: «Tutta la colpa dalla a me. Tutta quanta». Le cose ripresero a marciare normalmente dopo aver proferito questo balsamo. Alcuni mesi più tardi, imperversavano di nuovo i problemi e siccome la prima lettera aveva funzionato, Breznev aprì la seconda con lo stesso stile conciso: «Scrivi due lettere e rimetti la carica». Questa leggenda ha invecchiato male, perché sembra che oggi i vecchi presidenti non scrivano più lettere per i loro successori, ma si presentano su un set televisivo per essere intervistati da giornalisti pennivendoli, o scrivono 140 caratteri su Twitter per ricordare ai loro eredi che la politica somiglia molto a un cartello – con delle regole fisse e obbligatorie, dove se cade uno, tutti gli altri lo seguiranno. In confidenza – poiché dire pentito sarebbe un’esagerazione – nessuno può superare un presidente di governo.

In Colombia il presidente Santos, che giunse a essere il “migliore amico” di Chávez, e che sembrava interessato a risolvere il conflitto con le FARC con l’aiuto del Venezuela, ha ceduto alle pressioni del narcopresidente Uribe e dal guantanamovicepresidente nordamericano Joe Biden. Patetico cedimento che offuscherà il suo mandato. Le FARC hanno pubblicato un comunicato nel quale esprimono enorme preoccupazione per le manovre di Santos. Sembra che ci sono politici, di qua e di là, ai quali interessa che esistano sempre dei gruppi terroristi operativi.

Santos appartiene all’oligarchia più rancida della Colombia e l’aumento delle pressioni lo conferma. L’avviamento dell’Alleanza del Pacifico, iniziativa spalleggiata dagli USA, con il fine di riarticolare i paesi che non aderiscono al nuovo impulso di democratizzazione dell’America latina è stata vista come un momento per giocare di nuovo la carta della destabilizzazione nei confronti del Venezuela. Sembra che la Colombia voglia tornare a quel momento in cui voleva diventare l’Israele dell’America latina. Dai documenti di wikileaks abbiamo appresso che Uribe offriva questa opportunità ai suoi padrini nordamericani. Un gran parlare della Colombia, un gran parlare della Spagna, quando la vera patria si trova in Svizzera.

Di recente Uribe, appoggiato dalla stampa golpista colombiana, continua a dare spago all’insostenibile lagnanza di Capriles che sostiene che nelle elezioni venezuelane ci sia stata una truffa. Ecco perché Capriles non ha smesso di insultare pubblicamente Santos, rimproverandogli di aver assistito ai funerali di Chávez, aver dichiarato lutto nazionale e, infine, aver assistito alla presa di possesso del presidente Maduro. Uribe continua a lottare per difendere la propria impunità, giacché è consapevole che in qualsiasi momento può finire in un carcere gringo com’era già accaduto a Noriega.

Gli Stati Uniti di Obama continuano a pensare che l’America latina sia il loro patio trasero, il cortile di casa – espressione ripescata recentemente dal Segretario di Stato John Kerry. Hanno pensato che questa sia l’ora opportuna per proseguire con l’aggressione contro il Venezuela, approfittando di questo momento in cui il presidente Maduro ha davanti a sé il compito di ricostruire il blocco di potere che Chávez era riuscito a creare nei suoi 14 anni di governo e che attualmente si sente la necessità di rinnovare. Risultato? Gli enormi progressi per la pace in Colombia con alcuni accordi appena discussi all’Avana tra il governo e le FARC, nei quali finalmente s’introducono dei punti che concernono la riforma agraria, possono andare a puttane per merito del disonesto gesto di Santos di accogliere Capriles a Bogotà. Uno schiaffo in  faccia a Maduro che con enorme generosità ha fatto il possibile e l’impossibile perché finisse la guerra civile in Colombia.

Come si difende la democrazia con questi nemici? Diventa molto difficile proteggerla quando scegli la via elettorale – e per il momento, non esiste un’altra – e i vecchi poteri, appoggiati dagli Stati Uniti, quelli del colpo di stato in Honduras e in Paraguay, si trovano intatti con tutto il loro potere reale, mettendo costantemente i bastoni tra le ruote. A Cuba gli attori del vecchio regime se ne sono andati a Miami. In Venezuela continuano con le loro banche, le loro ditte, i loro mezzi di comunicazione, i loro contatti internazionali, le loro università e i loro giudici in attesa del momento propizio per smontare tutto quello che è stato costruito. Questo fatto ricorda molto da vicino quanto è accaduto nella prima metà del secolo scorso quando in Spagna, durante la II Repubblica, vinse la CEDA (Confederación Española de Derechas Autónomas). S’impegnarono a rendere difficile il compito dei governi repubblicani progressisti. Quando vinse le elezioni del 1933 – grazie alle divisioni della sinistra – la CEDA decise di smontare tutto quanto si era riuscito a ottenere in quegli anni. Il malcontento sfociò nella rivoluzione delle Asturie.

Quando parliamo di controrivoluzione nel Regno di Spagna o in America latina, spunta di solito Aznar (e la sua Fondazione FAES). Al pari di Uribe è preoccupato di finire in galera. Tutta la rete Gürtel, tutta la trama di Bárcenas, tutti gli extra, gli imputati Fabra Camps, Barberá, la sospettata Esperanza Aguirre, l’allegro Miguel Ángel Rodríguez e i suoi cocktail a elevata gradazione, la jaguar nel garage di Ana Mato, le truffe di Urdagarín e della sua presunta socia o l’attico di Ignacio González: in altre parole, il cuore di tutta la trama corrotta che devasta il Regno di Spagna, appartiene a un altro momento che non è più quello attuale, Rajoy e Soraya Saenz de Santamaría dixit. Sicuramente Rajoy non dimentica l’umiliazione che gli inflisse Aznar quando dichiarò pubblicamente che quella del notaio sarebbe statala sua seconda scelta, dopo che Rato aveva dichiarato le dimissioni.

I presidenti come Aznar, che sono in politica per fini di lucro, non scrivono sulla prima lettera che capita solo perché vogliono dare una mano. Altrettanto le pressioni di Uribe sono alla ricerca di un salvacondotto. L’intervista – ormai si definisce intervista qualsiasi cosa – ad Aznar che tanto subbuglio ha causato, non si trattava tanto di una minaccia di ritornare, ma un avviso sulle conseguenze di scoperchiare la pentola. Affari personali che colpiscono le nostre deboli democrazie. Ad Aznar che ci ha ficcato nella guerra d’Iraq, anche se sapeva che non c’erano armi di distruzione di massa, interessa solo il proprio tornaconto. Come anche a sua moglie, Ana Botella, che si allontanava per un attimo dalla Spa di Portogallo per venire con l’aereo in Spagna al fine d’informare brevemente sulle adolescenti morte nel Madrid Arena. Sappiamo che nell’odierna politica “cartellizzata” le uniche lettere che si spediscono alcuni presidenti sono simili a quelle che invia Cosa Nostra a chi non paga. Pare che per il presidente Santos la speranza sia una cosa simile, soprattutto nelle zone rurali dove da alcuni giorni è prevista l’approvazione del primo punto dei negoziati tra la guerriglia e il governo.

La totalità dei casi di corruzione che conosciamo non ha niente a che fare con il giornalismo d’inchiesta. Escono alla luce perché qualcuno che si trovava in mezzo alla faccenda ha un po’ scoperto il coperchio della pentola – la cosa giusta da fare – perché non ha ricevuto la fetta che gli spettava. Altrimenti avremmo mangiato l’indigesto racconto dell’esemplare coppia felice, Urdangarín e l’Infanta, e l’enorme prole che aspetta di essere sfamata. E, certamente, la rivista “Hola” continuerebbe a pubblicare fotoservizi su quelle magioni da Sissi che accontentano gli umili quando le vedono apparire sulla carta patinata delle riviste e che i loro padroni ci vendono come se fossero lettere d’amore indirizzate al popolo onesto.

Il comportamento del narcopresidente Uribe – un’importante parte del suo partito è inquisita per via dei collegamenti con i paramilitari – e del bugiardo Aznar mettono in apprensione i loro paesi. Ciò avviene perché formano parte della “cartellizzazione” della politica che ha plagiato la democrazia tanto in Colombia quanto in Spagna. Cupole cooptate, ostaggi del denaro e della geopolitica nordamericana, tutti quanti retti da quella trama globale che reclama delle maggiori dosi di modello neoliberale, sobillata dai venali mezzi d’informazione. Una parte della popolazione è avvelenata da questi ultimi, mentre l’altra parte che fa riferimento alla chiesa li considera come una soluzione. Abbiamo davanti a noi un bel panorama.

È ancora in sospeso il fatto che i popoli sostituiscano le riviste del cuore con i quaderni delle querele.

Anche prima della Rivoluzione Francese si provava maggiore interesse per i vestiti di Maria Antonietta che per il suo collo.

[trad. dal castigliano per ALBAinFormazione di Vincenzo Paglione]

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